La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Unione Europea, La Gran Bretagna ci ripensa

Scritto da – 11 Dicembre 2015 – 20:23Nessun commento

brexitIl Regno Unito ha sempre avuto un ruolo predominante nella storia di questo nostro vecchio Continente, pur mantenendo ben forte la sua identità nazionale. Questo duplice aspetto ha storicamente concesso alla Gran Bretagna di poggiare i piedi su una linea di confine, che la rendesse protagonista e spettatrice, in base alle esigenze. Tuttavia, in questi ultimi anni, mantenere l’equilibrio sembra essere sempre più difficile, con i nazionalisti euroscettici che tirano Cameron per la giacca affinché esca dall’Unione, e gli europeisti che, dall’altro lato, spingono per restare. Per tagliare la testa al toro, il Primo Ministro inglese ha dunque promesso un referendum, che si terrà nel 2017, per chiedere alla popolazione britannica se voglia ancora fare parte di questa sgangherata famiglia che è l’Unione Europea. Per ora a dire il vero, gli inglesi non paiono troppo preoccupati dalla faccenda, che secondo i sondaggi è vissuta come marginale dalla maggior parte dei cittadini (che pur tuttavia sembrano essere sempre più inclini alla scissione). Presumibilmente la questione rimarrà aperta ancora a lungo, e molti rimarranno indecisi fino all’ultimo momento. In ultima analisi, l’ago della bilancia dovrebbero essere i risultati della trattativa che Cameron ha indetto per l’inizio del 2016 con i suoi colleghi europei. Sembrano infatti tutti concordi sul fatto che ciò che il londinese sarà in grado di portare a casa dal summit, deciderà le sorti della Gran Bretagna e dell’Unione. Sulle suddette sorti tuttavia, non v’è modo di mettere d’accordo euroscettici ed europeisti. I principali punti di discordo sono il futuro dell’economia, del commercio e del mercato del lavoro così come il tema dell’immigrazione. Più marginale nel dibattito, ma ugualmente importante, vi è anche la questione dell’influenza politica che il Regno Unito perderebbe o meno, con l’uscita dall’UE.

Per cominciare, l’economia. Questo punto in particolare è facilmente riassumibile in due fazioni. Coloro che sono favorevoli a restare nell’Unione, sostengono che il PIL inglese sarebbe ridotto notevolmente in caso di un’uscita. Ad esempio l’istituto di ricerca CEP (Centre for Economic Performances) ha calcolato che la perdita potrebbe variare dal 6.9 al 9.5% nel caso in cui l’uscita non fosse accompagnata da FTAs, Free Trade Agreements, ovvero accordi commerciali con gli altri Stati membri. Altrimenti, la riduzione si attesterebbe intorno al 2-2,2%. Inoltre, ciò che rinforza maggiormente l’opinione degli europeisti, è l’eventuale difficoltà che il Governo riscontrerebbe, nel sostituire con fondi nazionali, i finanziamenti europei di cui ora molte imprese inglesi godono. Al contrario, i sostenitori della Brexit affermano che l’economia sarebbe generalmente avvantaggiata, in quanto i soldi ora spesi per restare in Europa sarebbero investiti a favore delle piccole e medie imprese.

Altro punto cruciale della faccenda sono i posti di lavoro. Molti sostengono, in particolar modo nel mondo politico, che abbondonare la nave europea ora implicherebbe la perdita di 3 milioni di posti di lavoro. Gli istituti di ricerca, tuttavia, invitano alla cautela. Se da un lato è vero che una delle conseguenze potrebbe essere il trasferimento all’estero di molte aziende, soprattutto nel settore finanziario e automobilistico, è altrettanto vero che, come sottolinea l’Institute of Economic Affairs, questo non dipende, in ultima analisi, dalla permanenza o meno nell’UE. A dettare le regole, anche nel mondo del lavoro, è il mercato, e non esiste una diretta connessione causa-effetto tra l’uscita dall’UE e la domanda di beni inglesi da parte dei consumatori europei.

Dunque, la questione pare tornare al punto di partenza. Gli effetti di una tale decisione sono strettamente connessi alle conseguenze che essa avrà sul mercato, le quali a loro volta dipendono dall’esito delle trattative di febbraio. Su questo punto concorda la maggior parte delle imprese inglesi, le quali, intervistate dalla Camera di Commercio, ribadiscono, da entrambe le fazioni, il peso dei suddetti FTAs. Nell’attesa che questi accordi vengano conclusi, c’è qualcuno che però ha già le idee chiare. Esponenti politici come Nigel Farage ad esempio, sostengono che la possibilità di portare avanti politiche nazionaliste, senza restrizioni di sorta, sarebbe motivo di profitto per l’economia britannica, come lo è in quei Paesi ora in forte crescita come Brasile e India. Dall’altro lato c’è chi invece sostiene che il Regno Unito da solo non sarebbe in grado di reggere la competizione globale, e perderebbe quella fetta di mercato a cui ora può accedere proprio in quanto membro dell’Unione Europea. Questa considerazione si basa principalmente su un dato ineluttabile: il potere contrattuale di 65 milioni di britannici non è paragonabile a quello che hanno 500 milioni di cittadini europei messi insieme. D’altro canto, se per ora i dati confermano che la fetta più grossa delle esportazioni inglesi è indirizzata a Paesi dell’Unione, è anche vero che in un futuro, il mercato del Regno Unito potrebbe orientarsi verso i Paesi di G8, G20 o OECD, come ha sottolineato Iain Mansfield, l’economista vincitore del premio IEA Brexit.

In ultimo, ma non per importanza, c’è la questione dell’immigrazione. In questi tempi di grandi migrazioni e forti spinte nazionaliste, se non xenofobe, il tema è diventato il centro delle politiche di molti Capi di Stato. Essi infatti, volenti o nolenti, si trovano ad affrontare questa spinosa questione, dovendo bilanciare convenienze elettorali e vincoli sovranazionali. Anche per Cameron il tema è fondamentale, e si posiziona in cima alla lista dei punti di discussione, i quali saranno affrontati a febbraio con gli altri capi di Stato. Il Primo Ministro inglese punta infatti molto sulla questione dei benefici del welfare, che vorrebbe fossero concessi ai cittadini di Paesi dell’Unione che abbiano lavorato in Gran Bretagna per almeno quattro anni. La richiesta è controversa, in quanto sarebbe discriminatoria e non in linea con le normative UE, ma dall’altro rappresenterebbe un risparmio non indifferente per le casse dello Stato, senonché la possibilità per Cameron di estendere il suo elettorato a destra, rubando terreno alla frange nazionaliste che puntano a soluzioni ancora più estreme. Gli esponenti di questi partiti sostengono infatti che ogni problema sarebbe risolto con un’uscita dall’Unione Europea e il conseguente controllo delle frontiere. Tuttavia, la fine di Schengen rappresenterebbe senza dubbio un problema anche per i cittadini inglesi stessi, che dovrebbero sottoporsi a procedure burocratiche e di controllo molto più lunghe e complesse ogni volta che dovessero recarsi oltremanica. Inoltre, un fatto all’apparenza marginale, ma su cui molti stanno cerando di mettere luce, è la questione del confine, interno al Regno Unito, tra Irlanda del Nord e la Repubblica Irlandese. Un confine politicamente sensibile da moltissimi anni e che rischia di risollevare antiche questioni mai del tutto risolte. Infine, i dati sottolineano come in realtà, la fetta più grossa dell’immigrazione inglese sarebbe rappresentata da cittadini di Stati non europei e, dunque, da persone già sottoposte a normative d’immigrazione più restrittive.

Dal punto di vista delle altri membri, l’uscita inglese dall’unione parrebbe rappresentare generalmente uno svantaggio. Se per la Germania causerebbe uno squilibrio delle forze all’interno dell’Unione, e non in suo favore, per altri Paesi come Francia, Spagna e Italia, rappresenterebbe una vittoria indiretta per tutti i partiti indipendentisti ed euroscettici al loro interno. Una tale decisione al contrario, sarebbe probabilmente favorevole per i paesi del nord Europa, i quali, sempre più scontenti dei vincoli dell’Unione, potrebbero decidere di seguire la Gran Bretagna fuori dalla porta.

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