La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Guadare la crisi: qualcuno ci è riuscito

Scritto da – 13 Gennaio 2014 – 11:36Un commento

Dal 2008, quando è iniziata la crisi, non viene ripetuto altro che il solito messaggio. Televisione, giornali, radio, politici, economisti, banchieri e chi più ne ha più ne metta, continuano a ripeterci che la crisi è mondiale e che risulta sempre più difficile uscirne. Le migliaia e migliaia di statistiche, dati e quant’altro che ogni giorno affollano le reti di informazione, ci delineano un quadro abbastanza chiaro della situazione: La crisi economica c’è, e si vede, e si brancola nel buio quando parliamo di una soluzione ad essa. Come scriveva Lenin nel famoso opuscolo, “Che fare? “. La risposta non è una sola, perché in questi anni abbiamo assistito a centinaia di economisti esperti, ognuno col suo metodo. Nel frattempo, tra una chiacchiera ed un’altra, le nazioni che più di tutte avevano sofferto la crisi diventavano parte di quel dispregiativo acronimo che è PIGS, ovvero maiali. Ufficialmente sta per Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, con l’aggiunta di un’ulteriore I per inserire anche l’Irlanda. Quando la situazione di tali paesi è diventata febbricitante, allora è intervenuta la Troika, ovvero il potente triumvirato formato da Banca centrale europea, Fondo Monetario Internazionale ed Unione Europea. Le politiche di austerity adottate hanno risolto la crisi? Nient’affatto. Semmai hanno peggiorato la situazione economica e sociale. L’esempio più lampante, dove la crisi si è fatta sentire con maggior forza, è quello della Grecia. Sovrastata politicamente, la Grecia oggi non è più padrona della propria sovranità nazionale. La situazione nelle città greche è ogni giorno più allarmante. Chiudono ditte e negozi, la disoccupazione ha raggiunto nel Marzo del 2013 il 27%, ovvero 1,34 milioni di persone non hanno un’occupazione fissa. La disoccupazione giovanile, si attesta al 57,5%. Il tutto in rapporto ad un tasso di disoccupazione che si attesta al 12% nell’eurozona.

Non vanno certo meglio gli altri paesi, come la Spagna e la nostra cara Italia, con la differenza che la prima però sembra essere in via di recupero, mentre l’Italia continua a scendere in una spirale recessiva. Dunque per quale motivo ci si continua ad affidare alla Troika ed alle politiche di austerity? La risposta, ufficiosa più che ufficiale, è che questa è l’unica via per la ripresa. In parole povere, non ci sono alternative. In questi cinque anni più volte si sono azzardate ipotesi contrapposte alle misure della Troika, una su tutte l’uscita dall’eurozona da parte dei paesi in difficoltà. Tutte però sono state archiviate come proposte “folli”. Ma veramente non c’è altra alternativa all’austerity?

In realtà le alternative ci sono, ed a parlare non sono questa volta due o tre economisti fuori dal coro, bensì i fatti. I fatti ci dicono che alcuni paesi ce l’hanno fatta, per l’appunto. Alcuni paesi sono riusciti a superare la crisi economica, e senza adottare le politiche di austerity come ha fatto la Grecia. Andiamo dunque ad analizzare quali sono questi paesi, e come hanno fatto ad uscire da questo pantano.

PRIMA PUBBLICITA’

Sembra molto uno di quegli spot che spesso vediamo durante le pubblicità di qualche film in seconda serata. Tu sei li, tranquillo sul divano, e ad un certo punto parte la pubblicità. Appare sullo schermo, rigorosamente in bianco e nero e col volto triste, un signore o una signora in sovrappeso. Questo però era prima della “cura”. Le immagini che seguono ritraggono invece la stessa identica signora o signore con un fisico da far invidia a molti di noi. Queste sono le immagini dopo la “cura”. Alla fine, la voce del protagonista di questo incredibile cambiamento esulta trionfante: “Io ce l’ho fatta”.

Il più delle volte queste “cure” sono delle autentiche bufale che servono a ben poco. Nel nostro caso invece, i paesi che possono gioire urlando “Io ce l’ho fatta”, stanno dicendo tutt’altro che una fesseria. La “cura” adottata, si è rivelata perfetta, e loro sono riusciti dove altri oggi non riescono. Chi sono questi paesi? E come hanno fatto? Andiamo per ordine. Li analizzeremo uno ad uno, e cercheremo di capire se tali metodi possono essere universali e, soprattutto, riutilizzabili anche per altri paesi.

Prima cura miracolosa: l’Islanda

Il primo paese ad uscire dalla crisi è un paese molto piccolo. E’ isolato nell’estremo nord europeo, e precisamente nell’Oceano Atlantico settentrionale. Situato tra la Groenlandia, la Gran Bretagna e le Isole Far Oer, è il paese europeo con meno cittadini: trecentoventimila. Di chi stiamo parlando? Dell’Islanda, è chiaro.

La crisi finanziaria del 2008 colpì in pieno l’Islanda molto prima di arrivare nel Sud Europa. Il paese era guidato dall’allora Primo Ministro Geir Hilmar Haarde, il quale era stato eletto nel 2007. Con l’arrivo della crisi economica, immediatamente la situazione in Islanda crollò. Le prime tre grandi banche del paese, la Kaupthing, la Glitnir e la Landsbanki crollarono, portando l’Islanda ad un’implosione finanziaria mai vista prima. Haarde fu costretto a dimettersi, e fu anche il primo (ed unico) primo ministro a venire accusato ufficialmente di “negligenza” per quanto riguarda l’atteggiamento adottato durante quei due anni. La crisi economica aumentò e l’Islanda fu costretta a chiedere un prestito di 2,1 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale. La situazione però cambiò totalmente il 1° Febbraio del 2009. A ricoprire la carica di Primo Ministro viene chiamata Jóhanna Sigurðardóttir. Per la prima volta nella sua storia, l’Islanda ha un Primo Ministro donna, e per la prima volta al mondo, tale Primo Ministro è dichiaratamente omosessuale. Si forma un governo di coalizione tra i socialdemocratici, la sinistra ed i verdi.

La mossa d’esordio del nuovo Primo Ministro fu quella di indire un referendum semplice e chiaro: Volete voi cittadini pagare i debiti delle banche islandesi? Il 93% dei cittadini disse No. Non proprio un editto bulgaro, ma quasi. Di conseguenza le banche islandesi vennero fatte fallire (al contrario di ciò che è accaduto per esempio in Irlanda). Il costo del loro crollo fu pagato dagli investitori stranieri, così che gli islandesi non dovettero mai accollarsi sulle proprie spalle il peso di gestioni bancarie folli.

Il blocco dei capitali

La seconda mossa fatta dalla Sigurðardóttir fu il blocco dei capitali. Troppo facile arricchirsi e poi scappare in Svizzera o alle Seychelles o in un qualunque altro paradiso fiscale. I soldi restano in patria, nonostante le fortissime opposizione dell’Unione Europea a tale provvedimento. Ricordate qualche tempo fa la polemica tra Hollande e Depardieu? L’attore francese si era dichiarato un “perseguitato fiscale” in patria perché Hollande voleva adottare una misura simile a quella islandese. Si scomodò niente popò di meno che il Presidente russo Vladimir Putin in soccorso alla vittima di “mobbing fiscale” Gerard Depardieu, offrendogli la cittadinanza russa. Che bella storiella.

Svalutazione della moneta

Infine, la terza ed ultima mossa per contrastare la crisi, fu quella più importante: La svalutazione della Corona, la moneta islandese. Grazie a questa mossa, le esportazioni crebbero notevolmente, rimpinguando le casse statali ed il turismo. L’incremento di quest’ultimo rispetto al 2005 è di ben 51 punti percentuali. Un’altra importante differenza rispetto agli altri paesi colpiti dalla crisi, è che i consumi sono rimasti stabili. Ciò è stato reso possibile grazie ad una politica sociale diametralmente opposta a quella imposta dall’austerity. Più sovvenzionamenti ed aiuti alle persone in difficoltà, prendendo tali soldi da chi ne aveva. Ciò ha mantenuto i consumi alti e non ha fatto scemare la capacità di acquisto degli islandesi.

La situazione economica cominciò piano, piano a migliorare sempre più, portando il paese a ripagare le rate del prestito dell’FMI prima ancora della scadenza imposta. Il Prodotto Interno Lordo islandese è aumentato di due punti e mezzo percentuali nel 2012, e si prevede un aumento di quasi quattro punti nel 2014. La disoccupazione è scesa al 5%, quando fino a tre anni fa era stabile oltre il 7%. Le sue politiche economiche hanno attirato l’attenzione di moltissimi economisti ed anche di importanti testate giornalistiche. Il Wall Street Journal lo scorso anno gli ha dedicato un intero numero, pieno di elogi e commenti positivi. Si leggeva tra le altre cose che “grazie alla sua banca centrale autonoma, alle sue decisioni autonome e alla sua valuta ha avuto margini di manovra che i paesi dell’euro possono solo sognarsi. Il suo successo è un grande esempio per capire a cosa hanno rinunciato questi paesi per entrare nell’unione monetaria. E forse è un esempio di cosa potrebbero fare se la abbandonassero”. Lo dice il Wall Street Journal, non certo il Pravda.

Un modello riproponibile?

Cominciamo a mettere sul tavolo qualche conclusione. Tutto ciò che ha fatto l’Islanda per uscire dalla crisi, è riapplicabile in ogni paese? Si e no. Le politiche in campo sociale o il blocco dei capitali sono misure che potrebbero, e dovrebbero, fare tutti i paesi in crisi. L’austerity, come abbiamo potuto notare in questi anni, ha affossato l’economia e la domanda interna più di ogni crisi bancaria. La disoccupazione aumenta, e le politiche liberiste non sono certo riuscite a frenarla. Le politiche sociali islandesi invece si. Si prenda esempio. Ad ogni modo, però, non tutto è trasferibile agli altri paesi. Ad esempio un’uscita della Grecia dall’euro per un ritorno alla Dracma potrebbe essere catastrofica per il paese ellenico. Pur aumentando le esportazioni ed il settore del turismo, la Grecia non ha un’economia di sussistenza interna come l’Islanda. Questo perché, mentre per l’Islanda le esportazioni rappresentano oltre il 60% del PIL, per la Grecia esse non arrivano al 25%. Inoltre un altro fattore importantissimo da non sottovalutare è il peso delle importazioni. L’Islanda, svalutando la Corona, ha potuto anche diminuire le importazioni, anche perché è un paese che importa ben poco. Il settore energico, un esempio su tutti, è tutto completamente interno. L’Islanda non è costretta, come la Grecia, ad importare Gas dalla Russia o dalla Turchia, poiché  produce energia elettrica e riscaldamento grazie alla sua energia geotermica. I costi per la Grecia con un ritorno alla Dracma sarebbero altissimi e, soprattutto, insostenibili.

Seconda cura miracolosa: l’America Latina

Al giorno d’oggi vi è così tanta pubblicità in televisione che si fa fatica a ricordarsi la trama del film. Nuovo signore o signora in crisi, e nuovo metodo infallibile per tornare ad essere quelli di un tempo. Questa volta è l’incredibile macchina per addome e glutei, la “cura”. Come sempre, vediamo alla fine dello spot fisici scultorei forgiati da questo nuovo macchinario. Infine: “Io ce l’ho fatta.” Finalmente, l’attendevamo con ansia. Ed allora passiamo a parlare di coloro che hanno superato la crisi in maniera brillante, ed oggi sono vere e proprie superpotenze a livello mondiale. Se l’Islanda ha ottenuto buoni risultati, i paesi di cui andremo a parlare ora hanno ottenuto risultati enormi.

Dando una rapida occhiata qui e la nelle varie zone del mondo, riusciamo facilmente a notare che la crisi non è ne settaria, ne circoscritta in una particolare area del nostro pianeta. Da Nord a Sud, da Est ad Ovest, la crisi ha colpito tutti, e tutti ne sono ancora impelagati. O quasi. Il nord America non accenna a riprendersi, nonostante i numerosi interventi economici. Si certo, ci sono i soldi per fare un’altra guerra o due, però quelli per tornare ad un livello di crescita pre crisi non si riescono a trovare. L’Europa, come abbiamo già potuto vedere, è immersa fino al collo nella crisi, chi più chi meno, poiché se è vero che i PIGS, o i PIIGS, brancolano nel buio, non stanno molto meglio neanche i paesi dell’Est Europa, ne alcuni del Nord Europa. Le politiche di rigore in questi cinque anni hanno aggravato la recessione e non sembra esserci luce in fondo a questo tunnel. Neanche l’Est però se la passa troppo meglio. Nonostante Cina e Giappone sembrino trainare il mondo con le loro fiorenti economie, nello scorso anno il paese erede di Mao Tse Tung ha rallentato la produzione, nonché le esportazioni. Complice più che altro la crisi negli altri paesi che quella interna, c’è da dire.

In Islanda nel 2008 erano crollate tre banche, il che aveva dato avvio alla crisi. Anche in America Latina ritorna il numero tre. Precisamente, all’indomani dell’inizio della crisi, vi furono tre conseguenze per il continente: Prima un aumento vertiginoso dei prezzi degli alimenti e dei combustibili; poi tra il 2008 ed il 2009 la recessione ha toccato il suo picco; infine tra il 2009 ed il 2010 molti paesi non riuscivano a superare la contrazione della domanda aggregata. La situazione era al limite del risolvibile, in un continente dove la democrazia era ancora giovane a causa dei tantissimi anni di dittatura nella seconda metà degli anni novanta.

Come diceva Galileo Galilei, “Dietro ogni problema, vi è un’opportunità.” L’America Latina ha saputo cogliere questa opportunità per risolvere la crisi e per diventare, oggi, il continente più fiorente dal punto di vista economico. Ciò che li ha aiutati sono state le misure adottate. Tempestive quanto anticicliche. Spieghiamo meglio: Anche qui, per far fronte all’aumento dei prezzi, si sono adottate misure monetarie restrittive e con un abbassamento del tasso di cambio di ciascuna moneta. Ciò ha permesso di evitare tensioni inflazionistiche e di far si che la popolazione avesse accesso agli alimenti ed ai combustibili anche nel momento più acuto della crisi. La seconda mossa fu quella più importante: Aumento della liquidità, con una riduzione dei tassi d’interesse per permettere alla base monetaria di aumentare e, per quanto riguarda le politiche industriali e del lavoro, con sussidi, aumento del salario minimo, programmi di formazione e offerta di lavoro a tempo determinato. Misure simili a quelle che verranno prese in seguito in Germania, seppur con delle differenze. Infine, per rispondere a tono alla terza fase della crisi, i paesi dell’America Latina hanno deciso di dare ossigeno al mercato interno ai vari paesi, limitando così le importazioni al minimo. Si è protetto dunque il settore industriale con misure di incentivi all’acquisto o sgravi fiscali sulla produzione, permettendo così alle fabbriche di rimanere aperte e di rimettere in circolo denaro interno ai vari paesi.

Brasile ed Argentina: locomotive del continente

Come sottolinea la CEPAL, la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America latina e i Caraibi, i livelli di crescita del continente, seppur minori rispetto agli anni precedenti, sono rimasti più che soddisfacenti. Nel 2011 il PIL del continente si è attestato al 4,3% e secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2012 cinque paesi del continente sono stati classificati fra i primi cinquanta in termini di PIL (nominale): Brasile, Argentina, Venezuela, Colombia e Cile. Tanto per rinfrescarsi la memoria, nel 2001 l’Argentina ha vissuto uno dei periodi più bui dal punto di vista economico della sua storia. Ergo, chapeau. Nel 2013 le proiezioni stimano una diminuzione del PIL del continente, anche se, come sottolinea proprio la CEPAL, bisogna calcolare anche il peso della crisi a livello mondiale. Un po’ come per il discorso fatto riguardo alla Cina. Il tasso di disoccupazione è rimasto stabile sotto al 7%, in linea con gli anni passati. Ciò, insieme all’aumento del salario minimo, ha permesso di mantenere alte le richieste ed i consumi, non alterando l’economia della regione.

Qualcuno, malizioso, dirà che è tutto merito di Brasile ed Argentina, vere “locomotive” del continente, e che gli altri paesi in realtà soffrono la crisi come e più di Spagna, Grecia o Italia. Come diceva Trilussa, le statistiche dicono che vi è un pollo a testa, ma ciò significa che se io non lo mangio, c’è qualcuno che se ne sta mangiando due. Non è il caso dell’America Latina. Tutto il contrario semmai. Già, proprio perché i paesi che stanno trainando il continente non sono Brasile ed Argentina, bensì altri. Con un livello di crescita simile a quello avuto nel 2011, abbiamo al primo posto il Perù, al 5,9%; poi abbiamo Messico, Bolivia, Cile, Costa Rica, Nicaragua e Venezuela al 5%; seguono Colombia ed Ecuador al 4,5%; infine, fanalini di coda, Argentina e Brasile, i quali si attesteranno rispettivamente sul 2% e l’1,6%.

Investire nel sociale

Dinanzi a tutta questa serie di dati, lo Studio CEPAL evidenzia come il buon accesso al mercato finanziario internazionale e le riserve monetarie in costante aumento per l’intero continente, uniti anche ad un miglioramento dei risultati fiscali ed alla bassa inflazione, creino un clima di relativa tranquillità nel caso in cui la situazione europea, cinese o statunitensi dovessero peggiorare, oltre a mantenere basso il tasso d’interesse. A ciò va aggiunto un fattore importantissimo, spesso non indicato da nessuna statistica: molti paesi hanno deciso di affrontare la crisi con politiche di sostegno economico alla tecnologia ed all’istruzione, tasselli fondamentali per uscire dalla crisi. Qualcuno, qui da noi, diceva che con la cultura non si mangia. Forse è rimasto un po’ indietro in campo economico, per non parlare del fatto che in Italia la cultura vale 75,5 miliardi di euro e 1,4 milioni di posti di lavoro. Non proprio bazzecole. Per chiudere il discorso America Latina, userei proprio le parole del ministro del lavoro uruguayano Eduardo Brenta: “Dalla crisi si esce con più investimenti sociali”. Si prenda esempio.

I colpevoli, hanno pagato?

Come abbiamo potuto vedere, non vi è certo un caso isolato. Uscire dalla crisi si può (e si deve). Ma ciò può accadere soltanto con politiche economiche e sociali ben precise, mirate non certo a rifocillare le casse delle banche per un debito che non abbiamo creato noi ma loro. Quando negli Stati Uniti vennero sovvenzionate le banche in crisi, non venne inserita nessuna clausola nei contratti per far si che quel denaro venisse ridistribuito alla popolazione mediante prestiti o mutui. Infatti quei soldi vennero presi dal Governo ed intascati dai vari banchieri. Stop. Viva la crisi, allora. Secondo un’inchiesta del Die Zeit, giornale tedesco, i vari Richard Fuld (ex amministratore delegato della Lehman Brothers), John Stumpf (capo della Wells Fargo), Kelly King (presidente della BB&T) o chi per loro, dalla crisi sono usciti più ricchi di prima, intascando anche il 40% in più rispetto allo stipendio precedente al 2008. Wall Street non ha certo pagato la crisi da loro creata. L’abbiamo pagata noi cittadini.

Modelli per il futuro

Come diceva Isabel Allende, “Le crisi e le avversità, spesso diventano occasione di crescita interiore.” Ripartiamo proprio da questa frase datata 2002, ovvero ben sei anni prima dello scoppio della crisi economica. Cerchiamo dentro di noi la soluzione, guardando con un occhio a chi è riuscito a farcela, e cacciamo chi fa finta di risolverla, peggiorando solamente la nostra situazione.

 

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