La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Per comprendere la crisi: capitalismo e liberismo a confronto

Scritto da – 5 Giugno 2013 – 17:282 commenti

Le misure economiche adottate dai vari paesi dell’Unione Europea per fronteggiare la crisi non stanno producendo miglioramenti, tanto che l’eurozona oggi è l’unica area nel mondo ancora  finanziariamente in recessione e senza alcun segnale di ripresa. Gli Stati Uniti, da cui la crisi economica è partita nel 2008 diffondendosi nel resto del mondo in pochi mesi, hanno infatti imboccato la strada più sicura per la ripresa, cioè l’adozione delle misure economiche keynesiane, cosa del resto avvenuta anche in Giappone.  Le origini della crisi sono comunque lontane e denunciano un problema strutturale di fondo, ossia l’adozione delle politiche economiche dette neo-liberiste, che ancor oggi continuano ad essere difese strenuamente da molti economisti. Il liberismo è la più antica delle teorie economiche (risale al Settecento) e consiste nell’attribuzione all’economia delle teorie politiche del liberalismo, una corrente filosofica e politica basata sull’autonomia politica, economica ed etica del cittadino dall’arbitrarietà dello stato; Smith, nel suo saggio La ricchezza delle nazioni (1776) scrisse che l’economia di mercato raggiungeva la sua massima efficienza quando l’intervento statale era ridotto al minimo.

Nel 1929 il liberismo come modello economico fallì, provocando la repentina caduta dei mercati statunitensi; in breve tempo le banche fallirono a causa del mancato recupero dei debiti esteri contratti dagli stati europei durante la Prima guerra mondiale, la mancanza di liquidità nelle banche provocò a sua volta la riduzione continua degli aiuti alle imprese, le quali fallirono licenziando migliaia di operai che, dopo il “giovedì nero” (ottobre 1929) persero i loro risparmi depositati nelle banche stesse. La causa principale della crisi del ’29 è comunque attribuita alla rigidità dei salari, rimasti pressoché invariati nonostante l’aumento della produzione.

In Europa, il fallimento dell’economia provocò l’avanzata dei regimi totalitari, dal nazismo in Germania ai regimi fascisti nei Balcani, mentre l’Italia, paese a maggioranza agricolo, risentì in misura leggermente minore degli altri gli effetti della crisi.  Gli Stati Uniti invece scelsero una strada nuova; nel 1932 Roosevelt, appena eletto presidente, emanò una legge con cui abbandonò il regime monetario aureo (Gold standard), un sistema economico in cui le valute nazionali potevano essere convertite in una quantità di oro già fissata. L’abbandono di questa rigida politica economica gli permise di svalutare il dollaro, favorendo le esportazioni; un’altra misura fondamentale fu la creazione di numerosi posti di lavoro ottenuta con il finanziamento federale alle grandi opere pubbliche (infrastrutture, sistemazioni idriche), la creazione di una prima forma di previdenza sociale e l’istituzione di un minimo salariale; queste misure, unite alla fondamentale legge del National Industrial Recovery Act, con cui venne regolamentata la concorrenza fra le imprese, riuscirono a far ripartire l’economia statunitense, anche se molti economisti ritengono che furono le spese militari per la Seconda guerra mondiale la vera causa della ripresa economica.

Nel 1936 l’economista inglese John Maynard Keynes pubblicò il saggio Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta in cui proponeva un nuovo modello economico volto ad arginare la recessione della Gran Bretagna e a porre dei limiti alla disoccupazione dilagante. L’aspetto più importante della teoria keynesiana è l’intervento dello stato nel campo economico accanto all’iniziativa privata,  stimolando la domanda (il cosiddetto “Stato – imprenditore”) , in quanto il mercato da solo non può garantire la piena occupazione. Keynes teorizzò l’intervento statale proprio per favorire sia la domanda di quel particolare bene in calo, sia l’occupazione dei lavoratori licenziati, a tal fine stabilì la creazione e il mantenimento della cassa integrazione e degli ammortizzatori sociali, proprio per permettere ai lavoratori disoccupati di ottenere un salario minimo per incentivare i consumi, che a loro volta avrebbero mantenuto la produzione alta. I maggiori guadagni avrebbero poi dovuto sostenere l’aumento dei redditi ai lavoratori (moltiplicatore dei redditi); una volta raggiunta la piena occupazione, lo stato poteva reinvestire i surplus nei servizi pubblici.

Il welfare è l’aspetto più vistoso dell’economica capitalista, lo stato garantisce a tutta la popolazione, anche a chi non ha i mezzi, l’istruzione e la sanità gratuite, oltre ad altri servizi, finanziandoli con i proventi delle imposte (anche questa è una misura volta a favorire la domanda interna).

Queste misure economiche, che dalla Gran Bretagna si diffusero negli Stati Uniti e successivamente negli stati dell’Europa occidentale, unendosi alla ricostruzione postbellica dei paesi usciti dalla Seconda guerra mondiale, furono all’origine dei boom economici dell’Italia, della Germania Ovest e del Giappone, mentre Kennedy le utilizzò con successo per portare gli Stati Uniti fuori dalla recessione all’inizio degli anni ’60.

Negli anni ’70 però le teorie keynesiane vennero attaccate da una nuova corrente economica, detta monetarista, che faceva capo alla Scuola di Chicago e al suo più celebre economista, Milton Friedman. I monetaristi consideravano lo “stato – imprenditore” un fallimento essenzialmente a causa delle politiche di piena occupazione, che portavano all’esclusione di una considerevole quantità di individui dal mondo del lavoro, ma criticavano soprattutto la regolamentazione statale delle attività economiche. Friedman in particolare attaccò la politica d’espansione della spesa pubblica, causa di deficit e di inflazione, proponendo come soluzione l’emissione di una certa quantità di moneta adeguata alla quantità di beni prodotti dal sistema. La disoccupazione, secondo i monetaristi, è naturale e tende a rientrare nel tempo, mentre una condizione di piena occupazione favorisce l’inflazione.

Friedman vinse il premio Nobel nel 1976, anche perché la sua teoria beneficiò della spinta inflazionistica dovuta allo shock petrolifero del 1973 (il blocco delle esportazioni di petrolio decise dai paesi arabi come ritorsione verso tutti i paesi che avevano sostenuto Israele nella guerra del Kippur); negli anni ’80 la sua tesi ispirò sia il presidente americano Ronald Reagan sia la premier britannica Margareth Thatcher, entrambi convinti sostenitori della libertà di mercato e ostili al mantenimento dello stato sociale. Le teorie monetariste confluirono così nel neo – liberismo, una corrente economica più ampia che aveva come obiettivo principale l’annullamento delle politiche keynesiane e che si basava sulle teorie dell’offerta, come già teorizzato dal liberismo. Reagan puntò alla diminuzione dell’imposizione fiscale a carico dei ceti più abbienti riducendo la spesa pubblica, mentre la Thatcher privatizzò le imprese pubbliche operanti nei settori più importanti, dai trasporti all’energia; i paesi dell’Europea continentale, già avviati sulla strada dell’integrazione monetaria, rimasero sostanzialmente ancorati alle politiche capitalistiche.

Le politiche economiche neo – liberiste produssero già alcuni fallimenti negli anni ’70 e ’80, raggiungendo il culmine nel 1987, ma non furono abbandonate, anzi, si cercò di estenderle sempre più, anche se alcuni economisti erano coscienti fin dall’inizio che queste politiche sarebbero fallite, con gli stessi effetti del crack del 1929, ma i fatti storici degli anni ’80 sembravano smentire tali ipotesi. Il crollo dell’Unione Sovietica e la fine del comunismo apparvero a molti come la definitiva vittoria del liberismo, quasi a sancire il dominio mondiale appena acquisito dagli Stati Uniti.

La crisi del 2008, largamente prevista dagli esperti (un economista statunitense scrisse nel 2006 che essa era imminente), ha però investito tutte le economie mondiali, fortunatamente i suoi effetti sono stati attutiti grazie all’euro, una valuta forte abbastanza da mantenere in piedi le economie europee e anche grazie ai Brics, ormai entrati a far parte del G20.

Le politiche adottate per far fronte alla crisi sono state due, con esiti molto differenti. Gli Stati Uniti e il Giappone hanno scelto di invertire la rotta e hanno optato per politiche economiche keynesiane, con investimenti in grandi opere pubbliche e prestiti statali alle imprese (in particolare quelle dell’auto) per favorirne la ripresa, ma con tassi d’interesse medi. L’Islanda nel 2009 ha fatto bancarotta a causa di alcune bolle speculative bancarie, ma ne è uscita grazie a prestiti statali e nazionalizzando le banche, ponendole cioè sotto il diretto controllo del governo; oggi è una tra le economie più forti del Vecchio Continente.

L’Unione Europea invece non ha affrontato il problema della crisi con lo spirito unitario che dovrebbe possedere, perdendo tempo prezioso e rischiando di fallire anche a causa della politica di rigore proposta da alcuni stati, come la Germania. La rinuncia alla sovranità economica comunitaria, rappresentata da una banca centrale europea e con un debito risultante dall’accumulo dei debiti di tutti gli stati contribuenti, vanifica le iniziative prese nei summit; se una banca centrale europea con poteri forti fosse stata istituita subito, sarebbe potuta intervenire a colmare i problemi strutturali dei singoli paesi, avrebbe difeso l’euro dall’attacco degli speculatori internazionali e avrebbe poi potuto svalutarlo per favorire le esportazioni, proteggendo così il mercato interno, un po’ come la Federal Reserve che negli Usa ha protetto alcuni stati americani dalla bancarotta.

Le iniziative in campo economico imposte ai paesi in difficoltà – oltre alla Grecia, anche il Portogallo, la Spagna e l’Irlanda – e adottate in Italia sono di stampo liberista, perché comprendono forti tagli nel settore pubblico, servizi inclusi, il raggiungimento del pareggio di bilancio in tempi brevi e la contrazione del debito, ma si tratta di misure restrittive e inefficaci sul lungo periodo; si sta cercando di combattere la crisi non cambiando politica economica, ma inasprendo quella che l’ha causata.

Gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina sono già fuori dalla crisi, con le rispettive economie ancora rallentate, ma in moto. L’Europa invece è ancora in crisi perché l’euro si è rafforzato, provocando così un calo delle esportazioni, inoltre l’economia è ancora in forte recessione per la chiusura del mercato del lavoro e per i continui tagli alla spesa pubblica.

Si deve invece andare avanti nel processo di integrazione europea abbandonando progressivamente l’idea della sovranità nazionale, ormai inutile in un mondo globalizzato, in favore di una vera comunità europea, che affronti le crisi e i problemi futuri con progetti adottati all’unanimità e volti ad aiutare i paesi in difficoltà senza imporre condizioni di sorta. Non si tratta di fantapolitica, perché sono gli stessi problemi affrontati e risolti dall’Italia all’indomani dell’Unità, con la creazione di un sistema economico comune nonostante le grandi differenze tra le varie aree del paese; l’Italia può avere ancora un grande ruolo nella costruzione dell’Unione Europea, perché può offrire un modello di unificazione economica e politica, oltre che culturale, raggiunta nonostante la presenza di aree assolutamente diverse tra loro per ricchezza o per modello sociale.

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