Nucleare iraniano: la lunga strada verso il compromesso
Prologo: Ginevra, 24 novembre 2013. A pochi mesi dall’elezione, il presidente iraniano Hassan Rouhani e il suo nuovo governo promettono una nuova apertura dell’Iran a livello internazionale. Per la prima volta dopo gli anni di isolazionismo “alla Ahmadinejad”, il paese torna al tavolo delle trattative in merito alla questione più spinosa: il proprio programma nucleare. L’Iran rivendica il diritto all’arricchimento dell’uranio. Negli anni precedenti, la scoperta da parte dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), di un numero sempre maggiore di centrifughe e della presenza di quantità di uranio arricchito oltre il 20%, mette sull’attenti le potenze mondiali che temono il possesso da parte di una teocrazia mediorientale di un arsenale nucleare. Le pesantissime sanzioni inflitte al paese (in aggiunta a quelle poste a seguito della proclamazione della Repubblica Islamica) ne colpiscono pesantemente l’economia. Con l’ex presidente Ahmadinejad ogni tentativo di dialogo risulta inutile. Per la prima volta, si tenta di raggiungere un accordo: il risultato del meeting di Ginevra, tra i P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la Germania) e l’Iran è un accordo ad interim, il Joint Plan of Action. L’accordo prevede la drastica riduzione del numero di centrifughe funzionanti in Iran, la rinuncia all’ulteriore arricchimento dell’uranio, diminuire lo stock di uranio arricchito al 5% e abbassamento della soglia limite al 3,5%. In cambio, i P5+1 promettono di ridurre drasticamente le sanzioni, ripristinare alcuni scambi commerciali. Il Joint Plan è costituito da una prima parte di clausole, con scadenza di 6 mesi, e una seconda parte, finale, che verrà attuata al raggiungimento di un accordo definitivo, duraturo e completo. I negoziati sono dunque prolungati per poter trovare una soluzione finale in questo senso; la scadenza per le trattative è fissata a distanza esatta di un anno.
Vienna, 24 novembre 2014: la speranza che aveva impregnato l’inizio del meeting, che avrebbe dovuto mettere il punto finale alla vicenda del nucleare iraniano, esce azzoppata dal risultato finale: nessun accordo trovato tra le potenze internazionali e l’Iran. La scadenza è stata spostata di 7 mesi; entro marzo 2015 è comunque necessario delineare i punti principali, che verranno (forse) completati da aggiunte e dettagli entro e non oltre giugno 2015. Le parti in causa sembrano comunque relativamente soddisfatte della situazione attuale. Javad Zarif, ministro degli Affari Esteri Iraniano, insieme a John Kerry e Catherine Ashton (che continua a seguire le trattative al posto della nostra Mogherini, giudicata forse ancora “acerba” per una questione di questa delicatezza) hanno commentato positivamente il risultato che non c’è, dicendosi fiduciosi per gli sviluppi futuri.
Effettivamente non si può considerare quest’occasione mancata come un totale fallimento, considerando quanto è stato fatto nel corso di appena un anno, rispetto alla totale indifferenza al dialogo prima dell’avvento di Rouhani alla presidenza. L’Iran non è intenzionato a cedere troppo, la Guida Khamenei e l’opinione pubblica non accetteranno né permetteranno che i propri rappresentanti siano deboli nei confronti delle altre potenze. Conoscono il loro peso sulla scena internazionale, la politica degli ultimi trent’anni, permeata da un sentimento di diffidenza verso l’esterno, di un timore quasi paranoico verso l’occidente, fa sentire il proprio peso anche ora che la situazione sembra andare via via alleggerendosi.
Si può quindi essere fiduciosi, si può, questa volta, pensare di poter portare a casa un risultato? Purtroppo la situazione è complessa e una qualsiasi previsione potrebbe risultare azzardata. Se da una parte possiamo pensare che i negoziati sarebbero già crollati a picco in assenza di una qualsiasi ottimistica luce in fondo al tunnel, la scena internazionale risulta quanto più divisa.
Tra i più grandi pretendenti alla risoluzione definitiva, Obama e l’Europa. Obama ha bisogno di almeno un successo in politica estera, di cui è ancora sfornito dall’inizio del suo mandato. Per evitare di sprofondare ancora di più agli occhi dell’opinione pubblica e, soprattutto, per creare una nuova alleanza stabile e per lui, necessaria, in Medio Oriente. In un puzzle di stati dai confini sempre più labili, in preda a guerre civili e al caos da decenni, una potenza stabile e pronta a una qualsiasi forma di dialogo è un tassello preponderante nella politica della zona.
Israele però tira le sottane americane. Sebbene per alcuni punti di vista per lo Stato Ebraico risulterebbe vantaggiosa la riduzione del potenziale nucleare iraniano e la creazione di una sorta di contrappeso con Riyad, permane la diffidenza verso un paese che fino a pochi anni fa era un nemico giurato da non sottovalutare. L’appianamento dei rapporti tra Iran e Stati Uniti, inoltre, non giocherebbe a favore di Israele.
Il grande nemico del trattato resta però la Russia. Dallo scoppio della crisi ucraina, la Federazione si è difesa dalle sanzioni annunciate minacciando l’Europa di “chiudere il rubinetto”. Le risorse energetiche provenienti dall’Iran costituirebbero un grave deterrente alla linea aggressiva di Mosca, che si ritroverebbe estremamente indebolita sul piano dei negoziati con le potenze occidentali e dunque estremamente limitata nella sua politica espansionistica. Dall’altra parte, gli stati Europei attendono con ansia la possibilità di aggirare l’ostacolo energetico e, come gli Stati Uniti, trovare un nuovo interlocutore in Medio Oriente.
Non sarà facile mettere la parola fine a questa vicenda. Lo sviluppo del conflitto in Ucraina gioca un ruolo importante, e l’Iran potrebbe scegliere una linea lievemente più accondiscendente, permettendo di giungere più facilmente al compromesso. I passi fatti fino ad ora soni importanti ma non garantiscono un risultato sicuro e di rapida attuazione. La strada è ancora in salita.
Federica Stefani
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