La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Closed curtain di Jafar Panahi

Scritto da – 7 Gennaio 2014 – 12:24Un commento

“… Il mondo di un filmmaker è caratterizzato da una miscela tra la realtà e la fantasia.
Il filmmaker usa la realtà come sua ispirazione, la dipinge con i colori della sua immaginazione e crea un film che è una proiezione delle sue speranze e dei suoi sogni.
La realtà è che io sono stato incarcerato per aver realizzato film negli ultimi 5 anni e sono ora ufficialmente condannato a essere isolato per altri 20 anni.
Ma io so che potrò conservare i miei sogni e realizzare dei film con la mia immaginazione.
Ammetto che in questo tempo non sarò in grado di registrare i problemi quotidiani del mio popolo,  ma io non voglio negare a me stesso di poter sognare che tra 20 anni tutti i problemi saranno risolti e io potrò realizzare un film sulla pace e la prosperità del mio Paese …”.
(Jafar  Panahi)

È questo uno stralcio della (probabile) ultima comunicazione ufficiale del regista iraniano Jafar Panahi, condannato nel 2010 dal regime di Ahmadinjad a scontare la pena di reclusione fisica, aggravata dalla censura e l’interdizione culturale della durata di 20 anni, per aver partecipato alle manifestazioni di opposizione al governo. Questa lettera aperta, che Panahi inviò alla Berlinale 2011, inno all’immaginazione, alla speranza e ai sogni, ancore di salvezza per un artista forzatamente costretto al silenzio, risuona oggi, all’indomani dell’anteprima italiana del suo ultimo film “Closed curtain” (evento speciale promosso dall’Ass. ceCINEpas all’interno della 18ma edizione del MilanoFilmFestival) come un vero e proprio manifesto programmatico di resistenza del pensiero intellettuale e dell’autorialità del regista. Manifestazione di sopravvivenza della volontà artistica come atto liberatorio.

“Closed curtain”, Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura al Festival Internazionale del Cinema di Berlino 2013, non può che rappresentare, infatti, la dimensione “fantasmale” del regista, che non potendo più farsi pubblicamente portavoce delle inquietudini che animano il proprio paese, prende a sviscerare se stesso, quale microcosmo morale, abitato da visioni e proiezioni in lotta, e che, da clandestino, chiede al mondo del dibattito culturale, di farsi portavoce per lui, delle sue restrizioni pratiche (un telefono cellulare sprovvisto di sim card come unico mezzo di ripresa; un pezzo di legno scalfito come stativo per le riprese in camera fissa) delle sue riflessioni umane e critiche sullo statuto dell’artista, la cui creatività, linfa vitale, “miscela tra realtà e fantasia”, oscilla nel buio e nel vuoto innaturali di un tempo sospeso e di uno spazio asserragliato.

“Proiezione di speranze e sogni”, ma anche incubi, che sgomitano per impossessarsi della sua ispirazione e pulsione alla vita, in antitesi tra sublimazione e disconoscimento dell’autore come punto di vista narrante e del personaggio come simulacro di se stesso. La lunga sequenza introduttiva inquadra, a partire dall’interno di una casa sul mare, le cui finestre sono sbarrate dalle inferriate (la prospettiva simbolica di uno stato prolungato di prigionia) l’ingresso nell’abitazione di un uomo con un segreto occultato nel proprio bagaglio. Uno scrittore in fuga, (interpretato dall’attore e amico Kamboziya Partov) che si barrica in casa, quale unico riparo agibile .

Un uomo che cerca ostinatamente l’invisibilità dagli occhi esterni, inquisitori ed estremamente intolleranti, persino alla possibilità di possedere un cane, animale considerato impuro, vittima di mattanze istituzionalizzate. Un uomo e un cane ugualmente braccati, che cercano di trasformare il silenzio e l’impercettibilità della loro presenza in un precario porto sicuro.

Un rifugio – prigione rivestito di panni neri sulle tende, lenzuoli bianchi sulle pareti, che come sepolcri ammutoliti consegnano all’oblio le icone e le memorie di un passato di denunce e riconoscimenti clamorosi.

Narrazioni, come corpi di reato e capi di imputazione, passibili di pena, lì dove l’evoluzione e il confronto di pensiero è bandito in qualsiasi forma. Tuttavia, la paura più estrema e il sospetto più dilaniante, non indossano armi o abiti militari, e non si insinuano attraverso i comuni passaggi di ingresso. Oltre la soglia la vista è sempre negata, dal buio pesto o dal controluce accecante. E’ il campo della rifrazione immaginaria dell’autore ad essere minacciata dalle fobie e dalla rassegnazione, che premono per prendere la parola, per assumere la fattezze dell’antagonista, che rivendica il proprio ruolo sulla scena. Una giovane donna irrompe in casa, gettando nel caos lo scrittore, proprio quando questi cominciava ad illudersi sulla quiete irreale custodita dalla casa; insinua il tarlo che questo limbo artificioso non sia altro che un folle e logorante inganno. Piuttosto la morte. Lenta e solitaria, abbandonato all’abbraccio dell’orizzonte, del mare calmo, che promette un elegiaco smarrimento senza più ritorno.

Lasciare una vita che è non più vita, è l’ipotesi che Panahi ammette di aver accarezzato, quando interpretando se stesso, spoglia i protagonisti dei loro abiti di scena, riportandoli al loro stato di temi di sceneggiatura o filmati che confondono back stage e voli pindarici nella fantasia. Fantasia che ancora con estremo coraggio si tiene abbarbicata al sogno come evasione dell’animo oltre se stessi.

Il finale, speculare all’inizio, è infatti una fuga drammaturgica, un rinviare ancora ad un tempo successivo il ricongiungimento tra lo sguardo narrante e la corporeità rimessa ai personaggi di finzione, compreso se stesso. Dalle medesime terrazze carcerarie, si distinguono in lontananza uomini intenti a far volare un aquilone, lanciare una palla al proprio cane, che libero sfreccia per riportarla al suo padrone, lo stesso Panahi che attraversa il giardino antistante per salire in auto e partire, ma non prima di aver caricato nel bagagliaio la speranza che questo giorno arrivi, prima o poi.

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