La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Breve delirio sugli effetti dell’economia al potere e l’ideologia del lavoro

Scritto da – 13 Febbraio 2013 – 16:54Un commento

Mo’ ti racconto una storia di lavoro, sangue e merda. Prendi l’amico Pierre Godard, che salta sul treno ogni mattina per raggiungere la città. È lì che lavora. Sul suo volto almeno cinquanta sfumature di scazzo. È grazie agli altri stronzi, pensa lui, che inizia a soffrire di disturbi mentali. Quelli? Facce da babbuini, facce finte… La fisiognomica non mente, si capisce. Lo sanno tutti, mica per ridere. Sempre tra i piedi, dice che ce li ha. Uno che ha abbandonato con successo i suoi studi, Godard. Un tipo sveglio. Il lavoro logora chi non ce l’ha, dice sempre. “Ora et labora è un motto nemmeno un poco scontato”, pensa e poi dice a mezza voce mentre guardiamo la televisione. Dallo schermo, ecco lo scherno a reti unificate: “… più fiducia nella democrazia… dobbiamo proseguire su questa strada… ascesa dei populismi che mirano alla disintegrazione… Cernobbio… Carobbio… Napolitano auspica… credibilità internazionale… pericolosi fenomeni di rigetto… soluzione costruttiva… ma vediamo il servizio. È pronto? Mi confermate?… ancora un secondo… Via! Si parte. Scompiglio, fermento, trambusto. Applausi”. Stai choosy, “a decidere saranno, come sempre, gli elettori”, la chiosa finale. ‘Sta minchia! Ecco quello che gli gridiamo.

E poi la notizia che gli fa perdere la testa: la mattina successiva sarà Sciopero! Sciopero nazionale di categoria dei trasporti, di 24 ore, proclamato da Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Ugltrasporti, Faisa-Cisal e sigle varie. I rossi lo fanno diventare rosso in faccia: “Andate affanculo voi, bus, metro, tram, mogli, mariti, figlie e treni. C’ho mica la macchina io!”. Paradosso dei paradossi: una volta tanto che si era svegliato convinto e contento di andare a lavorare… eccoli che te lo ingabbiano a casa. Astute mosse propagandistiche, non c’è che dire. Soluzioni politiche di alta scuola sindacalista.

Allora penso: dalla lotta di classe alla lotta di categoria. Sindachiamo su questo, con Godard. Qualcuno si da fuoco davanti al parlamento. Uno dice: non è proprio quel che si suole chiamare una “soluzione politica”. Non ci si può suicidare così, senza permesso, davanti a tutti, che poi susciti clamore (magari all’estero, non qui). Serve una soluzione politica, cioè condivisa. La maggioranza, le larghe intese, il circuito democratico… La classe politica condivide un solo pensiero; semplice, buono e giusto: il cittadino medio repubblicano democratico fondato sul travaglio fa la fila da Euronics per il nuovo iPhone 5, ascolta Renzi, compra Volo. Rispetto alla politica, invece, ce n’è di due tipi: il primo la segue, a volte, ma non troppo; di sbieco, con un occhio, diciamo, perché si sa che è tutto un “magna magna”. Il secondo – fiducioso oppure per “magnà” dall’interno – milita nel partito. Il partito è quella cosa indefinita che ha distrutto lo Stato italiano. Sai che c’è? Hanno ragione loro. Se non ci pensa la politica, alla mediocrità chi ci pensa?

Un giorno Pierre mi dice: “Senti questa… in nome del paradosso e dell’immaginazione, se il lavoro provoca infelicità, precarietà e sofferenza, se un contratto annienta la dignità individuale, che vi sia la sua abolizione”. Questa sì che era una vera e propria zaffata di acido fenico! Insomma li credeva tutti zelanti, frenetici martiri, donatori di sangue, cuore, polmoni, ossa, piedi, ginocchia, braccia, cervello. E tutto questo per emulazione! Soluzione? Abolirlo, per rappresaglia. O il lavoro o la vita. Una tesi interessante. E allora io ci aggiungo il carico: … e gli studenti che scendono in piazza dovrebbero alzare il vessillo con su scritto “Noi il lavoro non lo vogliamo. E vi veniamo a rubare a casa”. Il ricatto sociale. A nuova musica, nuova canzone. Questo sì che è un vero slogan, che te lo riprendono le televisioni di tutto il globo. Roba che le immagini te le mandano in onda persino in Alaska. Si vola alto, finalmente!

Godard è d’accordo. Però mi avverte: le persone potrebbero credere che il nostro è tutto un cazzeggiare. Ci prenderanno per buffoni; del resto non frega niente a nessuno di parlare di Spirito o del perché della nostra esistenza su questo pianeta. Nessuno si scervella ad articolare certi ragionamenti quando si bada all’essenziale, ad arrivare a fine mese. Ha ragione, siamo nel superfluo, nel lusso. Il ragionamento non regge, se versato nel mare della crisi economico-esistenziale. Il dubbio però mi sfiora. Ci vedo del paradossale, dell’assurdo. La vita è tutto un cazzeggio? Non per me, questo sicuro. Ormai è deciso. Trovato lo slogan, si organizza il corteo. Al loro perdente “Arbeit macht frei“, opporremo i nostri validi striscioni. Nelle prime file campeggeranno le frasi di tutti i grandi del Pensiero, a sostenerci idealmente. Per far vedere che non siamo cretini, oppure che c’era qualcuno ancora più cretino di noi.

– Non esiste dignità, non c’è vita reale per un uomo che lavora dodici ore al giorno senza sapere per quale scopo lavora.

(André Malraux)

– Ho stabilito, come massime cui ci si deve sempre attenere, che i poveri siano rigorosamente tenuti a lavorare, e che è prudenza alleviare i loro bisogni, ma follia eliminarli […]. La ricchezza più sicura consiste in una moltitudine di poveri laboriosi.

(B. de Mandeville)

– L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi.

(Bertrand Russell)

– Il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno… Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare.

(Friedrich Nietzsche)

– C’è qualcosa di tragico nel fatto che non appena l’uomo inventò una macchina capace di sostituirlo nel lavoro, cominciò a patire la fame.

(Oscar Wilde)

– Il lavoro è una maledizione che l’uomo ha trasformato in piacere.

(Emil Cioran)

Per le strade, muniti di megafono, leggeremo notte e giorno stralci di “Le droit à la paresse – Réfutation du droit au travail”, di Paul Lafargue:

«I socialisti rivoluzionari devono riprendere la battaglia che hanno combattuto i filosofi e i pampliettisti della borghesia; devono andare all’assalto della morale e delle teorie sociali del capitalismo; devono demolire, nella testa di chi appartiene alla classe chiamata all’azione, i pregiudizi diffusi dalla classe dominante; devono proclamare, in faccia ai bacchettoni di tutte le morali, che la terra cesserà di essere la valle di lacrime del lavoratore. […] Si dice che la nostra epoca sia il secolo del lavoro; è invece il secolo del dolore, della miseria e della corruzione. E tuttavia, i filosofi, gli economisti borghesi, dal penosamente confuso Auguste Comte fino al ridicolmente chiaro Leroy-Beaulieu; i letterati borghesi, dal ciarlatanescamente romantico Victor Hugo fino all’ingenuamente grottesco Paul de Kock, tutti hanno intonato i canti nauseabondi in onore del dio Progresso, figlio primogenito del Lavoro. A sentir loro, la felicità avrebbe regnato sulla terra: già se ne percepiva l’arrivo. Essi riandavano nei secoli passati, a grufolare nella polvere e nella miseria feudali, per riportare cupi esempi in contrasto con le delizie dei tempi presenti. […] E a proposito della durata del lavoro, gli schiavi delle Antille lavoravano in media nove ore, mentre nella Francia che aveva fatto la Rivoluzione dell’89, che aveva proclamato i pomposi Diritti dell’uomo, esistevano manifatture dove la giornata era di sedici ore, delle quali se ne concedeva agli operai una e mezza per i pasti. […] Dato che, prestando ascolto alle fallaci parole degli economisti, i proletari si sono abbandonati anima e corpo al vizio del lavoro, essi precipitano l’intera società in quelle crisi industriali di sovrapproduzione che sconvolgono l’organismo sociale. E quindi, essendovi pletora di mera e penuria di compratori, gli opifici chiudono e la fame sferza le popolazioni operaie con la sua frusta dalle mille corregge. Le crisi industriali seguono i periodi di superlavoro con la stessa fatalità della notte il giorno, trascinandosi dietro la disoccupazione forzata e la miseria senza sbocco. […] In presenza di questa doppia follia dei lavoratori di uccidersi di superlavoro e di vegetare nell’astinenza, il grande problema della produzione capitalista non è più trovare dei produttori e decuplicare le proprie forze ma scoprire consumatori, stuzzicare i loro appetiti e creare in loro bisogni fittizi».

 

 

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