Lavoro, dicotomia dell’Io
Il mondo del lavoro, oggi, diventa sempre più frenetico, complesso, spietato. Frenetico perché la varietà di compiti e di mansioni che si richiede a un lavoratore, portano lo stesso a non avere più una specificità, ma a dover saper fare tutto (non dimentichiamo la nascita delle imprese di multiservizio, in crescita esponenziale, ma che si avvale di una unica tipologia di contratto), complesso, perché porta a non dover interagire più solo con una, ma con più parti sociali (il datore di lavoro, le parti sindacali, gli utenti-clienti del servizio, il luogo fisico di lavoro che spesso non esiste più), spietato, perché l’indebolimento dei contratti, la crisi economica e l’avanzare della mentalità basata sul mero profitto esente dalla pietas di un rapporto umano, alienano sempre più la persona, e dividono la sua unità in due. Da una parte l’uomo, dall’altra lavoratore, col pericolo di una personalità debole, schizofrenica, in cui l’Io psichico “abdica” a seconda dei momenti, delle difficoltà e delle circostanze. Questo è il profilo d’uomo che si rischia di creare con l’odierna impostazione del mondo del lavoro. I sindacati dovrebbero uscire dal loro imborghesimento e tornare nelle postazioni di lavoro, i datori di lavoro dovrebbero tornare a comportarsi da “buoni padri di famiglia” come esplicitamente indicato nei nostri umanissimi codici. I lavoratori devono tornare ad amare il lavoro. Non il proprio, ma Il Lavoro. Il lavoro in senso filosofico, ideologico, universale, costituzionale (non dimentichiamo che la Nazione si fonda su di esso). Dovrebbero tornare a considerar che non esistono lavori denigranti e lavori indispensabili, o mestieri “sfigati” e mestieri “fichi”. Ciò che porta stipendio, busta paga, profitto, è utile e dignitoso alla persona e, nell’universale, anche alla società. E’ utile il lavoro di operatore ecologico, di portiere, di pulitore, di lavapiatti, di cassiere, perché danno denaro, sicurezza, stabilità personale e ordine sociale. Sono d’accordo quando la collega Anna Soru, nel suo articolo “citazionista” NEET fannulloni. Una lettura superficiale per non affrontare la disoccupazione giovanile, riconosce il disagio di una generazione di disoccupati, e la mancanza di volontà di alcune parti sociali nel riconoscere e risolvere i problemi della disoccupazione giovanile, incrementati dall’indifferenza, dall’egoismo e dalla malavoglia di alcuni uomini politici, di alcuni uomini del sindacato, di alcuni datori di lavoro. Vogliamo dire molti? Diciamo molti. Vogliamo dire la maggioranza? Forse, ma diciamo di sì. Vogliamo dire tutti? No. Eppure leggendo quell’articolo, anzi, quello sfogo della Soru, si enuclea che son tutti colpevoli. Tutti, tranne i lavoratori, tranne le giovani leve. Tranne chi, in cerca di un lavoro, non lo trova. Bisogna distinguere la massa generazionale fra quelli che cercano e quelli che non cercano, non fra quelli che “cercano” e quelli che “trovano”! Tra questi, vi sono dei ragazzi e delle ragazze che si alzano dalla mattina all’alba sino all’imbrunire e vagano per le vie della città scrutando le vetrine, i centri commerciali, le ditte, i locali, in cerca di un annuncio. Si presentano, lasciano curriculum “a tappeto”. Non soltanto mettendo annunci su internet, ma facendosi vedere, bisognosi, motivati. Vi sono poi altri che si sono “parcheggiati” all’università, riflettendo su quale tipo di studi approfondire, pensando a cosa possano fare, e senza pensare se lo dovevano fare! Altri ancora che, per inerzia, senza un impulso personale o genitoriale, sono “spiaggiati” in casa davanti alla TV o al PC. I Neet appunto. E’ troppo comodo cercare il problema sempre al di fuori. E’ troppo comodo cercare un colpevole nel mondo quando, spesso, per trovare l’unico colpevole è sufficiente guardarsi allo specchio.
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