La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Intellettuali e intellettualoidi. Laddove pensare diventa un insulto

Scritto da – 22 Gennaio 2014 – 17:104 commenti

Luciano Bianciardi nasce a Grosseto il 14 Dicembre del 1922, figlio di una maestra elementare e di un cassiere di banca. Dopo il liceo classico, il richiamo alle armi e la laurea in Filosofia alla Normale, affianca per anni il lavoro d’insegnante di Inglese a quello di direttore della Biblioteca Pubblica della sua città. Nel 1955 accetta di trasferirsi a Milano per lavorare alla Feltrinelli: ma il desiderio generale di rivoluzionare gli schemi culturali del suo tempo affluisce in un più deluso senso di ribellione verso le gerarchie e il “comportati così” dell’azienda. Nel 1956 viene, infatti, licenziato per scarso rendimento. Dunque sprofonda assieme ai tre figli e alla moglie in una vita di stenti, non fosse per le traduzioni di autori come Miller – Steinbeck – London – Berger e la pubblicazione di alcuni suoi romanzi. La celebrità arriva invece nel 1962 con La vita agra, dal quale successivamente il regista Carlo Lizzani trae il film interpretato da Ugo Tognazzi. Eppure non si vuole arricchire, non scende a compromessi con quel sistema sociale e culturale che tanto lo indigna. Finisce per murarsi in se stesso e nella gabbia impossibile dell’alcool, abbandonando il filone “dell’incazzato” in favore di quello risorgimentale e di alcune collaborazioni giornalistiche. Luciano Bianciardi muore a Milano il 14 Novembre del 1971, consumato dalla sua dipendenza e dalla sua rabbia.

Una storia amara. Una vita che ricordo qui soprattutto per quel che pesa e ha pesato nell’ infinito ragionamento circa il ruolo degli “intellettuali”. Giustappunto, vi rammento che nel 1967 Bianciardi pubblica su ABC (un settimanale d’attualità degli anni ’60-’70) Non leggete i libri, fateveli raccontare, in 6 puntate, precisamente corrispondenti alle Sei lezioni per diventare un intellettuale dedicate in particolare ai giovani privi di talento. Ovvero il miglior manuale che esistase vuoi imparare a scalare l’Elicona.

Se sei un ragazzo-a tra i 20 e i 30, mediocre, senza particolari attitudini. Vestiti classici e dimessi. Tabacco in cartina sempre tra le mani. Mimica e gestualità raffinate, evidenti, per sopperire alla mancanza di argomenti verbali. Un borghesuccio del ceto medio, per di più provinciale, che studia Scienze Biologiche a Pavia o a Parma. Se ti fai vedere a lezione una volta ogni due mesi, ma frequenti assiduamente le lezioni dei tuoi amici di Lettere. Senza vergogna lecchi i piedi del professore non di ruolo e altrettanto senza vergogna molli tutto per Scienze Politiche. Se non ti laureerai mai, o con dieci anni di ritardo perché tu d’estate vai a “lavorare” nell’Europa del nord, mica a Riccione per bagnare le gambe. Se vuoi pubblicare i tuoi diari s’un quotidiano di provincia. Se sei membro onorario di un’intima associazione culturale, eppure non leggi libri. Non guardi film. Non assisti a spettacoli. Non ascolti cd. Semplicemente te li fai raccontare da ragazzi del giro o dalle recensioni del Times. Secondo i programmi scolastici dovresti conoscere, benché in sintesi, il pensiero universale: hai proprio l’impressione di sapere tutto di tutto. Se piuttosto non hai idee politiche precise, però sai indubbiamente di non essere né fascista né berlusconiano. Se non hai hobbies, non giochi a calcio, per te solo discorsi da bar dello sport, allora ragazzo sei già un intellettualoide e non ti dovrai far raccontare la trama del libro di Bianciardi dalla bibliotecaria del paese. Varianti odierne del Nostro?

Può studiare giurisprudenza oppure architettura; citazioni come se piovesse, da Pasolini, da Baudelaire, da Bukowski; in pubblico si adagia sulle amache di Michele Serra, mentre nelle occasioni gongola per le comparsate di Saviano e Gramellini; poi ci sono i post Facebook di canzoni di De Andrè, Leonard Cohen e delle foto di Erwitt; non mancherà certo l’intera produzione Bressoniana; i suoi film preferiti sono Il fantastico mondo di Amélie, Io e Annie, Trainspotting e Into the wild. Non che il Nostro sappia di cosa parla. Non lo saprà di suo, ma grazie a Google gli è concesso di non sembrare un tarocco. Almeno finché non riappaiono nelle vetrine gli intellettuali di marca.

«Che cosa significa, per cominciare, la parola “intellettuale”? … chiunque non eserciti un mestiere manuale… È intellettuale chi vive nel mondo degli studi e dell’intelligenza…Uomo di cultura e giudizio elevato. Oppure: persona colta, con l’animo aperto ai godimenti dello spirito… E allora?»

E allora che fine hanno fatto gli intellettuali?

Tre cause: il coma del sistema dei partiti, la svalutazione del merito e il tramonto dell’etica del comune. Una conseguenza: siamo alla fine dell’era degli intellettuali “legislatori”e, a dirla tutta, forse pure gli intellettuali “interpreti” non se la passano bene. Purtroppo resistono gli intellettuali raccontati da Bianciardi, la versione volgare di un ruolo prima custodito per pochi degni, l’intellettuale da grande magazzino, un fenomeno da baraccone in grado di mettere insieme due belle parole con un po’ di savoirfaire. Fiumi di opinioni in una futilità sola.

Quindi, siamo in presenza di una crisi mondiale, sia economica che ideologica. Non ci converrebbe inventare un nuovo atteggiamento consapevole nei confronti della società che sfamiamo? Un’innovazione strutturale del pensiero, che può nascere soltanto da gentili illuminati. Una nuova generazione di intellettuali centrati sul bene comune, slacciati dal potere, al fine di favorire una cultura della morale e di orientare l’opinione pubblica verso la comprensione dello stato delle cose a partire dai principi universali. Edward Saïd diceva che la missione dell’intellettuale deve essere quella di capire e pronunciarsi, incessantemente antagonista dei governi. Agire in prima persona, rompere il silenzio. Diceva che l’intellettuale non deve aspettare che ci pensino i politici, perché non lo faranno. Ci deve pensare perché è l’unico, rispetto ad altri specialisti, in grado di scioglierei doppi nodi della società e della politica, in virtù della sua essenza critica-analitica e non particolare.

Ebbene, impegnarsi per un intellettuale non significa far bene il proprio lavoro, continuare ad essere bravo. Impegnarsi vuol dire mettere la propria faccia e le proprie mani al servizio della democrazia, al servizio di chi non può parlare ma avrebbe molto da dire, al servizio dei cittadini che ancora dormono all’ombra dell’ultima ingiustizia. Da Giordano Bruno a Chateau briand, da Jean-Paul Sartre a José Saramago, da Bertrand Russell a Noam Chomsky, oppure Foscolo, Jonathan Swift e Cyrano de Bergerac. La figura del vero intellettuale non deve essere di moda, mentre deve essere per forza fuori dagli schemi, apocalitticamente all’opposizione. Deve poter fare ciò che vuole. Non si può comprare. Non cerca facili maggioranze, piuttosto si assume responsabilità (la responsabilità delle ide), sceglie e corre il rischio. L’intellettuale è un ragionatore dialettico, campione al contempo della working-class e della letteratura emersa dai cenacoli. No snob. No élite. No noia del dandy. Sì orgoglio d’appartenenza. Sì ficcanaso e pensiero disobbediente. L’ intellettuale in quanto uomo pensa e lavora nel mondo, nella società e per la società. Non è il dotto della torre d’ avorio che chiuso nelle sue stanze guarda dall’alto la realtà, in aperta indifferenza. Non sta spaparanzato sulla torre di Babele dove ognuno monologa in un proprio linguaggio incomprensibile agli altri. Anzi. Per farlo tacere bisogna ucciderlo.

Ecco, lo devo dire: nell’Italia di oggi l’intellettuale non è tendenzialmente di destra. L’ho detto. N.B.: non lo è giusto perché a destra non ci può stare! Sebbene le zucche a destra ci siano, comunque decreta sempre e solo il Boss. Il Boss non vuole coscienze critiche, soffre gli intellettuali e quando sente parlare di cultura tira fuori la pistola. Il Boss offre una tv lucciola dell’Auditel, vogliosa di lavare il cervello agli spettatori? Allora il Boss guarderà fuggire ogni santo giorno qualche suo liberale e quelli rimastigli, accogliendo il compromesso “a patto di vincere, qualsiasi cosa”, smetteranno di essere (per definizione) liberali. O meglio, come Umberto Eco ha risposto a Bondi – La Russa e Verdini in occasione della riapertura di Alfabeta: «…Il grande intellettuale di destra è o conservatore o reazionario. Il reazionario ha il mondo in gran dispetto, coltiva aristocraticamente il suo sogno di un ritorno ai valori della tradizione, e non ritiene elegante compromettersi con un impegno politico. Quindi la destra politica ne conosce vagamente il nome, ma non lo legge, e tutto sommato ne diffida (come del resto il saggio reazionario diffida della destra politica). Il conservatore, dal canto suo, è certamente impegnato in una difesa del sistema esistente (il che non esclude una critica pacata e una serie anche creativa di proposte per un miglioramento dello status quo, proprio affinché non se ne vagheggi lo stravolgimento), ma proprio il tono non eccitato della sua critica lo rende poco utile come strumento di battaglia.»

Ora, fingiamo che l’Italia sia al momento come Quello che perde i pezzi di Gaber (ahi ahiahi lì un ginocchio, là la Telecom, qua le chiappe), che gli intellettualoidi siano delle badanti e gli intellettuali i suoi figli più grandi. Allo stesso modo di una famiglia canonica, tra fratelli ci si balocca e in questo caso i minori insultano i maggiori. Il termine “intellettuale”, infatti, oggi è un insulto ed è abominevole che lo sia diventato. Ciò nonostante, siamo sicuri che tale rovina non dipenda anche dal fatto che i figli maggiori non si stanno prendendo cura della loro madre? Perché la lasciano frantumarsi nelle grinfie di una cinica badante, senza invece tentare di incollarle addosso un polpaccio o una mano persi per strada? Se affinché un pensiero cambi il mondo bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime, è chiaro che gli intellettuali devono tornare a far di più.

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