Ju Tarramutu: l’Aquila in pellicola
Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera…all’Aquila. Il documentario del filmmaker Paolo Pisanelli, “Ju Tarramutu”, che ripercorre l’arco di tempo di 15 mesi dal terremoto del 6 Aprile 2009, potrebbe mutuare il titolo di un noto film Coreano sul ciclo della vita scandito dal succedersi delle stagioni che segnano il paesaggio. Il tempo e il paesaggio, che siano naturali o dell’animo umano, sono i primi due elementi con cui il regista Salentino tenta di documentare la ricostruzione di quelli che ha definito “I territori della città più mistificata d’Italia”. La percezione del tempo, da quello sconvolgente e interminabile dei 22 secondi in cui la terra ha tremato, a quello biologico e impassibile del sole che sorge, tramonta e risorge dai monti, fino al tempo mediatico dei provvedimenti e dell’infotainment, ridondante e manipolato. In quest’ultimo caso, l’interpretazione che l’autore veicola a nome degli Aquilani è inequivocabile: se tutto il mondo guarda la tragedia Aquilana attraverso la Tv, all’Aquila la Tv è forse l’unico rottame intenzionalmente abbandonato tra le tonnellate di macerie. La strategia comunicativa di rimuovere il trauma dalle coscienze e dall’immaginario collettivo attraverso il miracolo del benessere (le New Town ecocompatibili dal design moderno e dotate di ogni comfort) ha solo intensificato l’espropriazione identitaria di una popolazione prevalentemente agricola, la cui dimensione civica nasce dal borgo antico. Nell’attesa di rimuovere gli sbarramenti di protezione che imprigionano le case semidistrutte, gli Aquilani riallacciano le proprie radici con la terra, in senso non solo figurato, iniziando dalla cura dei propri giardini, dalla coltivazione dei propri campi, gli unici luoghi familiari accessibili.
Dopo l’inverno, per molti trascorso nelle tendopoli, la primavera torna a far capolino. Di frequente la macchina da presa indugia sui fiori ormai schiusi, sulle distese d’erba alta e verdeggiante, persino sugli insetti, mentre la colonna musicale di canti folcloristici e letture teatrali riferisce di come la cultura popolare abbia fagocitato la costituzione sismica dei luoghi quale forma di reazione e rinascita.
La natura rigogliosa e solare contraddice le case sventrate, i cumuli di rovine, gli animi feriti e al tempo stesso furiosi dei cittadini. Di riflesso la contraddizione pare risuonare nelle testimonianze dirette degli sfollati. Per alcuni la “Tenda” è stata l’emblema dello smarrimento, della solitudine e della paura, per altri il luogo della solidarietà, della condivisione del dolore e del sacrificio. L’anima ardente della città sfiancata sono i suoi abitanti “Irriducibili” (così si definiscono coloro che lottano perché si investa nella ricostruzione dell’Aquila all’Aquila e non altrove) che non si rassegnano all’idea che la terra natia si fossilizzi in reperti da mostrare al mondo e alla storia come monito di una politica egocentrica e affarista. Dalle fiaccolate ai sit-in, alla resistenza “attrezzata” di pale e carriole, oggi che le telecamere istituzionali oscurano la continua mobilitazione degli Aquilani, “Ju Tarramutu” (che, fosse solo per ragioni di distribuzione, non otterrà di certo la stessa risonanza di “Draquila” della Guzzanti) nel suo dar voce senza filtri ai cittadini e alla terra Abruzzese rappresenta per la ricostruzione un “Mattone” di inestimabile valore.
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