Kenya, governo distrugge missione umanitaria
Pensare a come cominciare questo articolo è stato faticoso e ha richiesto più tempo di quello che avrei mai potuto prevedere. Per giorni ho elaborato e rielaborato quanto avrei dovuto scrivere. E la conclusione è che non ha senso abbellire, anche solo stilisticamente, la trasposizione su carta di quello che è accaduto. Kenya, Mitumba, un luogo che suona sconosciuto anche ai motori di ricerca di internet. La baraccopoli, cosiddetta “slum”, più povera alla periferia di Nairobi. Un’area per una metà adiacente all’aeroporto non internazionale, il Wilson Airport, e da esso separata da un filo spinato; per l’altra metà, vicina al Nairobi National Park e alla “Nairobi bene” in cui si ergono le ville dei ricchi, e da quest’ultima separata da un muro di mattoni forati.
A Mitumba vivono circa 30.000 persone, 2 terzi delle quali donne e bambini, il 60% dei quali sieropositivi.
Il reddito medio procapite è di 0,60 dollari al giorno ed il tasso di scolarizzazione del 5%.
Fin qui, tutto molto simile a tante altre storie “made in Africa”.
La differenza è che, in questa baraccopoli, una piccola associazione, la Mitumba Onlus (http://www.assmitumba.org/), nata nel 2006 dall’idea, dalla volontà, dall’impegno di tre ragazzi italiani, ha permesso la realizzazione e la costruzione di una scuola con mensa, di una clinica con un ufficietto dell’anagrafe e dispensario di farmaci, di un orfanotrofio, di un info point per donne e uomini che cercano anche solo di avvicinarsi al concetto di lavoro.
Parliamo di strutture rudimentali, è giusto dirlo, ed è giusto costruirle così in un luogo di questo tipo, dove è necessario non sprecare i soldi nella realizzazione di mega palazzi insensati, circondati da niente.
Parliamo di strutture dotate di cibo, libri, medicine, di conoscenze e consigli messi a disposizione di chi ne ha bisogno, di tutto quello che concretamente apre l’accesso a diritti fondamentali, per noi scontati, come mangiare, studiare, curarsi e magari lavorare dignitosamente.
E questo, con un totale di circa 16.000 euro, raccolti fra donazioni, contributi per adozioni a distanza, fondi dell’associazione keniana REM (Rural Evangelistic Mission), la quale si è fatta carico dell’acquisto dei terreni del governo, su cui parte del tutto è stato realizzato.
E questo, non c’è più.
Sabato 19 Novembre 2011, poco meno di 2 mesi fa, dalle prime ore del mattino, fino a sera, le ruspe hanno spazzato via l’intera baraccopoli, scuola, orfanotrofio e clinica compresi.
Nulla è rimasto più in piedi.
I bimbi, circa 600, dai 4 ai 16 anni, si trovavano nell’orfanotrofio e nella scuola adiacente, in cui andavano all’alba per assicurarsi il primo pasto.
Non si conta alcun morto. Tutti sono fortunatamente scappati, scampando alla devastazione avvenuta nel silenzio totale.
Gli adulti, lì a guardare inermi, arresi di fronte alle divise militari che supervisionavano il lavoro delle ruspe.
Lì, ad aspettare che tutto fosse raso al suolo per cominciare a raccogliere i cocci e ricominciare a sopravvivere di stenti.
Questa è normalità: assistere allo spettacolo di chi calpesta i tuoi diritti lì è una routine, non fa notizia su alcun giornale, in nessuna tv o radio locale e non.
Me ne parla Antonella, un’infermiera professionale di Rutigliano, paesino della provincia di Bari, volontaria della Mitumba onlus. “Quando mi hanno chiamata dal Kenya quella mattina, per raccontarmi di quanto stava accadendo, non volevo crederci. Abbiamo cominciato 5 anni fa, insegnando come lavarsi correttamente le mani ai bambini per strada, a Nairobi. Tutto il lavoro ottenuto con tanta dedizione e fatica è distrutto. Ho provato un’immensa tristezza mista ad un senso di assoluta impotenza”.
E parla degli adulti della baraccopoli, come di sagome vuote, anime del purgatorio abituate così tanto al degrado a cui sono sottoposte, da non riuscire nemmeno a sfiorare l’idea che possa esserci un’alternativa possibile, quella che la Mitumba onlus ha potuto offrire ai loro figli.
Ma quello che più mi ha colpito del racconto di Antonella è l’aver saputo che tutta la documentazione relativa alla popolazione della baraccopoli, dalla nascita di un individuo, ai vaccini a cui è sottoposto, dagli attestati scolastici rilasciati e regolarmente riconosciuti dal governo, alle cure per eventuali patologie, è completamente andata distrutta.
A quella gente, ai bambini, agli orfani, è stato tolto anche il nome.
E quindi, sebbene non sia morto nessuno, nessuno esiste più per le autorità locali che possono così ampliare l’area dedicata all’aeroporto (di cui l’acqua usata per lavare gli aerei, era l’unica acqua a disposizione della baraccopoli), o costruire una strada che renda più agevoli gli spostamenti della “Nairobi bene”.
Eppure il Kenya, soprattutto recentemente ha dimostrato uno spiccato interesse alla difesa dei diritti umani, alla lotta al terrorismo, e lo ha fatto invadendo, ad ottobre dell’anno appena terminato, la vicina Somalia e sostenendo, per bocca del portavoce del governo di Nairobi, Alfred Mutua, che il paese “ha diritto di difendersi dai somali che fanno irruzione sul territorio per sequestrare gli stranieri e disonorare il Kenya”. Inizialmente, una delle motivazioni fornite ai volontari rispetto alla distruzione della baraccopoli, è stata proprio quella che fosse necessario, nell’interesse del paese, effettuare un raid per stanare eventuali shebab (estremisti islamici che controllano le zone centrali e meridionali della Somalia).
Poi, più nulla.
E per strada, senza più nemmeno un nome, sono rimaste 30.000 persone, 30.000 keniani, quasi tutti bambini.
E ad aiutarli, a confortarli, a chiamarli, ci sono i volontari della Mitumba onlus.
Possiamo esserci anche noi.
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