La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Dignità, l’è morta

Scritto da – 7 Giugno 2011 – 13:18Nessun commento
«Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato legittima comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni. Chi vuole continuare a tacere, lo faccia assumendosene la pesante responsabilità. Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando?».
Duecentomila a Roma, centomila a Milano e Torino, cinquantamila a Napoli, trentamila a Firenze, ventila a Palermo. In tutte le piazze italiane – e non solo – almeno un milione in totale. Pochi numeri, ma grandi cifre per descrivere l’appello lanciato al paese dalle donne riunitesi lo scorso 13 febbraio. Una manifestazione nata per rivendicare il diritto a “un’esistenza libera e dignitosa”, come sancito dall’art. 36 della nostra Costituzione, un articolo che sottolinea l’inscindibile nesso tra libertà e dignità. Migliaia di sciarpe bianche sono scese in piazza per riprendersi la dignità, un sentimento comune in grado di unire mondi solo nelle apparenze diversi. “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”: così si apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Dignità, per ricordare che il lavoro non può essere riconsegnato al potere di chi trasforma l’autorità in autoritarismo, per permettere a ciascuno di esprimersi e di costruire liberamente la propria personalità. Dignità delle donne, ma non solo: dignità d’ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente; dignità degli uomini, minata e calpestata allo stesso modo, dignità dei giovani, degli studenti, dei lavoratori onesti, di chi le cose che ha se l’è sudate, dei bambini. Dignità dei cittadini.
Milano, dopo una soffiata di primavera, era sotto la pioggia. Una pioggia leggera, di quelle che ti accarezzano la testa e non ti intimidiscono, di quelle che, soprattutto, non scoraggiano una folla consapevole e determinata a rivendicare i propri diritti. A Roma, invece, un assaggio di bel tempo, quasi un invito alla speranza. Il cielo aveva i colori rosati dello striscione srotolato dalla terrazza del Pincio, quando ormai piazza del Popolo era piena di gente, prima che migliaia di persone alzassero le mani e dicessero all’unisono “adesso” sulle note di Patti Smith e di “People have the power”: “Vogliamo un paese che rispetti le donne tutte”. Donne trasversali per provenienza, età, educazione e look, pronte a impugnare l’arma inconsueta dell’ironia: “Cervelli in fuga dal bunga bunga”, “Non tutte siamo Mi…nnette”, “Che vinca la zucca sulla patata”, “In politica bisogna metterci la faccia, non altre parti del corpo”.
«Le donne che scendono in piazza sono solo poche radical chic che manifestano per fini politici e per strumentalizzare le donne». Così il ministro della Pubblica istruzione, Mariastella Gelmini, ha commentato la manifestazione. E di istruzione ce ne vuole davvero poca per guardare le donne dei cortei e definirle “poche radical chic”. Di malafede, invece, ce ne vuole davvero molta. «Si tratta delle solite eroine snob della sinistra che sono uscite dai loro salotti per tentare di strumentalizzare la questione femminile e per attaccare un governo che continua ad avere la fiducia della maggioranza degli italiani», ha proseguito Mariastella.
Per una volta, bando alle polemiche. Le parole dettate da analisi di convenienza, si disperdano pure nell’aria: perché il vento, forse, sta cambiando. Non è possibile fare previsioni a lungo termine – d’altronde, non ne varrebbe neanche la pena – certo è che lo spirito accesosi nelle piazze il 13 febbraio ha promesso di segnare un nuovo inizio, un risveglio permanente della consapevolezza che quello che accade nel nostro paese non può essere ignorato, perché dipende da tutti quanti noi, dalle donne e dagli uomini che da sempre hanno lottato per rivendicare i propri diritti. La piazza è stata erroneamente (faziosamente, ipocritamente?!) tacciata di “moralismo”, “tendenza a considerare e giudicare cose e persone da un punto di vista esclusivamente morale, con eccessiva intransigenza e spesso con una buona dose di ipocrisia”. Caspita. È nata così “In mutande ma vivi”, manifestazione indetta dal per-l’occasione-sfacciatamente-libertino Giuliano Ferrara “contro il moralismo puritano e ipocrita”. Si lascino alla creatività del lettore eventuali battute sulla sede che ha ospitato l’iniziativa – il Teatro Dal Verme, a Milano – e ci si chieda, piuttosto: perché trasformare così biecamente l’indignazione morale – che riguarda, cioè, “la facoltà dell’uomo di poter valutare, individuare e realizzare nella pratica di vita i valori fondamentali dell’esistenza individuale e collettiva” – in moralismo? La filosofia non c’entra, così come non è la politica il nocciolo del problema. C’entra la necessità di un risveglio culturale, di dignità, di impegno. C’entra l’indignazione contro il degrado del paese. Non si è trattato di una manifestazione contro le donne “non per bene”, prime vittime di questa cultura sbagliata. Le donne (e non solo) non sono scese in piazza per affibbiare etichette, ma per colmare questo baratro culturale, per frenare il volo in caduta libera verso il medioevo catodico, per abbattere le barriere che ancora oggi – si direbbe oggi più che mai – impediscono di parlare di uguaglianza e parità. La manifestazione non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l’hanno promossa, le donne che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella cultura, dove l’intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica.
Il progetto delle organizzatrici ha radici molto più antiche del 13 febbraio. È nato circa un anno e mezzo fa da un gruppo di amiche. Mai avrebbero previsto un risultato così grande e importante, quando decisero di fondare un’associazione al femminile, “Di Nuovo”, per raccontare il ritorno delle donne. L’idea nacque in seguito alle discussioni cui diedero origine le parole di Veronica Lario e il caso di Noemi Letizia. Anime del progetto le sorelle Comencini, la sindacalista Valeria Fedeli, le docenti universitarie Francesca Izzo, Francesca Giuliani e Serena Sapegno, la giornalista Licia Conte, le giovani poetesse Sara Ventroni ed Elisa Da Voglio, la regista Carlotta Cerquetti e la precaria Fabiana Pierbattista. Lunetta Savino e Isabella Ragonese hanno poi tradotto in un testo teatrale il primo nucleo di idee e riflessioni sulle donne, “sempre più mortificate da rappresentazioni e discorsi pubblici fortemente lesivi della nostra dignità”. Dalla creatività di Francesca Izzo, infine, lo slogan, preso a prestito da Primo Levi, “Se non ora quando?”. “Mi è venuto così, stava nelle mie orecchie e corrispondeva esattamente a quel che volevamo dire. Ci è piaciuto e lo abbiamo usato”. E l’Italia trabocca di iniziative analoghe.
Le nuove femministe hanno tra i 18 e i 35 anni, sono giovani, la maggior parte studentesse, altre lavoratrici più o meno precarie. Un universo sotterraneo, ma brulicante. Non sono separatiste e di aspirazioni ne hanno tante. Si battono per superare i dualismi uomo/donna, per abbattere le barriere tra corpo e mente, per permettere alla donna di decidere e scegliere in libertà, dal sesso, alla salute, alla politica. Si battono affinché la donna esca dal ruolo di vittima e riaffermi la forza e i diritti di tutte, anche delle prostitute. Così è nata, tra le tante, Filomena, rete delle donne costituita «per promuovere il dibattito sulle questioni di genere e la piena partecipazione femminile in tutti gli ambiti della società italiana, con il chiaro obiettivo di modi?care lo squilibrio di genere che colpisce il nostro paese, in collaborazione con le altre realtà che perseguono analoghe ?nalità».
Quasi spaventa come a circa quarant’anni dalle “conquiste rosa” più significative – le stesse conquiste che hanno permesso alle nuove generazioni di donne di crescere senza il timore del proprio stesso – si imponga oggi, e così drammaticamente, il problema di portare nuovamente avanti una battaglia di genere. Colpevole, la regressione culturale cui stiamo assistendo. E se un tempo era il “soffitto di vetro” a tarpare le ali delle donne in carriera, discriminate in virtù del loro sesso, l’ostacolo peggiore è adesso la “scogliera di vetro”: pur avendo successo in ruoli tradizionalmente maschili, infatti, le donne sono sempre più a rischio di perdere il lavoro e di essere giudicate “sgradevoli” o “meno competenti”.
La “rivoluzione dell’eguaglianza” ha segnato la modernità. Oggi, più urgente che mai, si impone la “rivoluzione della dignità”, se è vero che “per vivere – chi ha ricordato, ancora una volta, Primo Levi – occorre un’identità, ossia una dignità”. Solo da qui, dalla radice dell’umanità, può riprendere il cammino dei diritti.

«Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato legittima comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni. Chi vuole continuare a tacere, lo faccia assumendosene la pesante responsabilità. Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignità e diciamo agli uomini: se non ora, quando?».Duecentomila a Roma, centomila a Milano e Torino, cinquantamila a Napoli, trentamila a Firenze, ventila a Palermo. In tutte le piazze italiane – e non solo – almeno un milione in totale. Pochi numeri, ma grandi cifre per descrivere l’appello lanciato al paese dalle donne riunitesi lo scorso 13 febbraio. Una manifestazione nata per rivendicare il diritto a “un’esistenza libera e dignitosa”, come sancito dall’art. 36 della nostra Costituzione, un articolo che sottolinea l’inscindibile nesso tra libertà e dignità. Migliaia di sciarpe bianche sono scese in piazza per riprendersi la dignità, un sentimento comune in grado di unire mondi solo nelle apparenze diversi. “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”: così si apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Dignità, per ricordare che il lavoro non può essere riconsegnato al potere di chi trasforma l’autorità in autoritarismo, per permettere a ciascuno di esprimersi e di costruire liberamente la propria personalità. Dignità delle donne, ma non solo: dignità d’ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente; dignità degli uomini, minata e calpestata allo stesso modo, dignità dei giovani, degli studenti, dei lavoratori onesti, di chi le cose che ha se l’è sudate, dei bambini. Dignità dei cittadini.Milano, dopo una soffiata di primavera, era sotto la pioggia. Una pioggia leggera, di quelle che ti accarezzano la testa e non ti intimidiscono, di quelle che, soprattutto, non scoraggiano una folla consapevole e determinata a rivendicare i propri diritti. A Roma, invece, un assaggio di bel tempo, quasi un invito alla speranza. Il cielo aveva i colori rosati dello striscione srotolato dalla terrazza del Pincio, quando ormai piazza del Popolo era piena di gente, prima che migliaia di persone alzassero le mani e dicessero all’unisono “adesso” sulle note di Patti Smith e di “People have the power”: “Vogliamo un paese che rispetti le donne tutte”. Donne trasversali per provenienza, età, educazione e look, pronte a impugnare l’arma inconsueta dell’ironia: “Cervelli in fuga dal bunga bunga”, “Non tutte siamo Mi…nnette”, “Che vinca la zucca sulla patata”, “In politica bisogna metterci la faccia, non altre parti del corpo”.«Le donne che scendono in piazza sono solo poche radical chic che manifestano per fini politici e per strumentalizzare le donne». Così il ministro della Pubblica istruzione, Mariastella Gelmini, ha commentato la manifestazione. E di istruzione ce ne vuole davvero poca per guardare le donne dei cortei e definirle “poche radical chic”. Di malafede, invece, ce ne vuole davvero molta. «Si tratta delle solite eroine snob della sinistra che sono uscite dai loro salotti per tentare di strumentalizzare la questione femminile e per attaccare un governo che continua ad avere la fiducia della maggioranza degli italiani», ha proseguito Mariastella. Per una volta, bando alle polemiche. Le parole dettate da analisi di convenienza, si disperdano pure nell’aria: perché il vento, forse, sta cambiando. Non è possibile fare previsioni a lungo termine – d’altronde, non ne varrebbe neanche la pena – certo è che lo spirito accesosi nelle piazze il 13 febbraio ha promesso di segnare un nuovo inizio, un risveglio permanente della consapevolezza che quello che accade nel nostro paese non può essere ignorato, perché dipende da tutti quanti noi, dalle donne e dagli uomini che da sempre hanno lottato per rivendicare i propri diritti. La piazza è stata erroneamente (faziosamente, ipocritamente?!) tacciata di “moralismo”, “tendenza a considerare e giudicare cose e persone da un punto di vista esclusivamente morale, con eccessiva intransigenza e spesso con una buona dose di ipocrisia”. Caspita. È nata così “In mutande ma vivi”, manifestazione indetta dal per-l’occasione-sfacciatamente-libertino Giuliano Ferrara “contro il moralismo puritano e ipocrita”. Si lascino alla creatività del lettore eventuali battute sulla sede che ha ospitato l’iniziativa – il Teatro Dal Verme, a Milano – e ci si chieda, piuttosto: perché trasformare così biecamente l’indignazione morale – che riguarda, cioè, “la facoltà dell’uomo di poter valutare, individuare e realizzare nella pratica di vita i valori fondamentali dell’esistenza individuale e collettiva” – in moralismo? La filosofia non c’entra, così come non è la politica il nocciolo del problema. C’entra la necessità di un risveglio culturale, di dignità, di impegno. C’entra l’indignazione contro il degrado del paese. Non si è trattato di una manifestazione contro le donne “non per bene”, prime vittime di questa cultura sbagliata. Le donne (e non solo) non sono scese in piazza per affibbiare etichette, ma per colmare questo baratro culturale, per frenare il volo in caduta libera verso il medioevo catodico, per abbattere le barriere che ancora oggi – si direbbe oggi più che mai – impediscono di parlare di uguaglianza e parità. La manifestazione non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l’hanno promossa, le donne che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella cultura, dove l’intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica.Il progetto delle organizzatrici ha radici molto più antiche del 13 febbraio. È nato circa un anno e mezzo fa da un gruppo di amiche. Mai avrebbero previsto un risultato così grande e importante, quando decisero di fondare un’associazione al femminile, “Di Nuovo”, per raccontare il ritorno delle donne. L’idea nacque in seguito alle discussioni cui diedero origine le parole di Veronica Lario e il caso di Noemi Letizia. Anime del progetto le sorelle Comencini, la sindacalista Valeria Fedeli, le docenti universitarie Francesca Izzo, Francesca Giuliani e Serena Sapegno, la giornalista Licia Conte, le giovani poetesse Sara Ventroni ed Elisa Da Voglio, la regista Carlotta Cerquetti e la precaria Fabiana Pierbattista. Lunetta Savino e Isabella Ragonese hanno poi tradotto in un testo teatrale il primo nucleo di idee e riflessioni sulle donne, “sempre più mortificate da rappresentazioni e discorsi pubblici fortemente lesivi della nostra dignità”. Dalla creatività di Francesca Izzo, infine, lo slogan, preso a prestito da Primo Levi, “Se non ora quando?”. “Mi è venuto così, stava nelle mie orecchie e corrispondeva esattamente a quel che volevamo dire. Ci è piaciuto e lo abbiamo usato”. E l’Italia trabocca di iniziative analoghe.Le nuove femministe hanno tra i 18 e i 35 anni, sono giovani, la maggior parte studentesse, altre lavoratrici più o meno precarie. Un universo sotterraneo, ma brulicante. Non sono separatiste e di aspirazioni ne hanno tante. Si battono per superare i dualismi uomo/donna, per abbattere le barriere tra corpo e mente, per permettere alla donna di decidere e scegliere in libertà, dal sesso, alla salute, alla politica. Si battono affinché la donna esca dal ruolo di vittima e riaffermi la forza e i diritti di tutte, anche delle prostitute. Così è nata, tra le tante, Filomena, rete delle donne costituita «per promuovere il dibattito sulle questioni di genere e la piena partecipazione femminile in tutti gli ambiti della società italiana, con il chiaro obiettivo di modi?care lo squilibrio di genere che colpisce il nostro paese, in collaborazione con le altre realtà che perseguono analoghe ?nalità».Quasi spaventa come a circa quarant’anni dalle “conquiste rosa” più significative – le stesse conquiste che hanno permesso alle nuove generazioni di donne di crescere senza il timore del proprio stesso – si imponga oggi, e così drammaticamente, il problema di portare nuovamente avanti una battaglia di genere. Colpevole, la regressione culturale cui stiamo assistendo. E se un tempo era il “soffitto di vetro” a tarpare le ali delle donne in carriera, discriminate in virtù del loro sesso, l’ostacolo peggiore è adesso la “scogliera di vetro”: pur avendo successo in ruoli tradizionalmente maschili, infatti, le donne sono sempre più a rischio di perdere il lavoro e di essere giudicate “sgradevoli” o “meno competenti”.La “rivoluzione dell’eguaglianza” ha segnato la modernità. Oggi, più urgente che mai, si impone la “rivoluzione della dignità”, se è vero che “per vivere – chi ha ricordato, ancora una volta, Primo Levi – occorre un’identità, ossia una dignità”. Solo da qui, dalla radice dell’umanità, può riprendere il cammino dei diritti.

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