La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Guerra in Iraq: perché non è mai troppo tardi per discuterne. L’Iraq inquiry

Scritto da – 5 Settembre 2010 – 16:40Nessun commento

Inutile piangere sul latte versato.  Oltre che essere un saggio monito materno, questa frase potrebbe anche sintetizzare il principio guida seguito da alcuni governi nel rapportarsi con decisioni intraprese in precedenza. Pietra sopra e sguardo avanti. Ce ne sono altri, invece, che si dimostrano particolarmente testardi, e non limitandosi a piangere, si interrogano sulla dinamica e la responsabilità del versamento. E quando il latte si chiama intervento militare e il versatore Tony, ecco fatta l’Iraq Inquiry, ovvero l’inchiesta sulle ragioni che hanno portato la la Gran Bretagna ad invadere l’Iraq a fianco degli Stati Uniti nel 2003. Lo scopo dell’inchiesta, iniziata il 30 giugno 2009, è quello di “identificare le lezioni che possono essere imparate dal conflitto in Iraq”. I 4 membri della commissione, sotto la guida di Sir John Chilcot, hanno il compito di ascoltare le testimonianze di personaggi che hanno influito nelle decisioni riguardanti l’inizio e la conduzione della guerra.

Cinque sono i punti principali attorno ai quali ruota l’inchiesta.

In primo luogo, c’è la questione dei presunti accordi stretti tra Blair e Bush durante un incontro informale nel ranch di Crawford, Texas, nell’aprile 2002: un documento classificato come confidenziale sembrerebbe infatti attestare che in quella occasione Blair avrebbe assicurato il supporto britannico anche ad una missione di “cambio di regime” (motivazione non contemplata come legittima dal diritto internazionale). Tuttavia, tre mesi dopo, nel luglio 2002, Blair dichiarò che a quel momento non era stata ancora presa nessuna decisione in merito all’adesione o non adesione alla guerra. Chiamato a testimoniare il 29 gennaio 2010, l’ex primo ministro ha negato di aver stretto alcun patto segreto con Bush . Davanti all’inchiesta, Blair ha ribadito che l’obbiettivo principale della guerra è sempre stato quello di disarmare Saddam dalle armi di distruzione di massa, con l’uso della diplomazia supportato da quello della forza. “Saddam era un mostro: se non ci si fosse occupato di lui a tempo debito ora si dovrebbe fronteggiare una minaccia ancora più grande” sono state le parole dell’ex primo ministro.

 Una guerra illegale?

Un altro punto da chiarire riguarda la questione della legalità o illegalità di una guerra che non ha mai ricevuto l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Sebbene la Risoluzione 1441, detta anche prima risoluzione, dichiarava che l’Iraq stava violando le precedenti risoluzioni del 1990-91 in materia di distruzione e divieto di costruzione di armi di distruzione di massa, in data 8 novembre 2002,  il Consiglio di Sicurezza non optò per un intervento, bensì decise di concedere al regime di Saddam, un prolungamento di 30 giorni entro i quali fornire “una dichiarazione accurata e completa di tutti gli aspetti del suo programma riguardante armi di distruzione di massa”. Se ciò non fosse avvenuto ci sarebbero state “serie conseguenze”. Nel dicembre 2002, Saddam produsse un documento di 12000 pagine in cui negava la presenza di armi nucleari in Iraq. Tuttavia i governi francese e britannico si dichiararono insoddisfatti del rapporto, perché a loro avviso non prendeva in considerazione armi chimiche e agenti biologici. Il 19 dicembre 2002 Colin Powell riconobbe che l’Iraq non aveva adempito a fondo quanto richiesto dalla risoluzione 1441. Ma ancora una volta, non autorizzò l’uso della forza, per il quale c’era la necessità di una seconda risoluzione, che però non sarebbe mai stata prodotta a causa della minaccia della Francia di usare il suo potere di veto.

Tuttavia, in data 20 Marzo 2003, Stati Uniti e Gran Bretagna decisero ugualmente di invadere l’Iraq e la guerra ebbe inizio.

Le giustificazione legali su cui si basava l’intervento erano la difesa preventiva (principale motivazione statunitense) e il mancato assolvimento da parte dell’Iraq delle richieste ribadite in numerose risoluzioni Onu (principale motivazione britannica).

Il mancato supporto dell’Onu e la conseguente possibile illegalità della guerra costituiscono un elemento centrale della corrente inchiesta. A questo proposito quattro sono stati i testimoni principali, le cui posizioni possono essere così riassunte.

Ms Wilmshurst, deputato-funzionario legale nel 2003, ha dichiarato che tutta la squadra legale dell’ufficio degli esteri credeva che si sarebbe creato uno “scenario da incubo” se la guerra fosse cominciata senza una seconda risoluzione dell’Onu.

Sir Wood, capo consigliere legale, ha detto di aver avvertito Straw, l’allora Segretario di Stato per gli Affari Esteri, che “l’uso della forza senza l’autorità del Consiglio di Sicurezza sarebbe risultato in un crimine di aggressione”, ma che la risposta a questo avvertimento sarebbe stata: “considero il tuo consiglio, ma non lo accetto”.

Straw, dal canto suo si è difeso dicendo che il fatto di essere segretario degli affari esteri prevede l’ascolto degli avvisi legali, non l’obbligo di seguirli e che sarebbe stato compito di  Lord Goldsmith, Alto Consulente Legale del governo – al quale solitamente spetta l’ultima parola in merito a questioni del genere- valutare la situazione ed esprimersi con più chiarezza in precedenza.

Infine, Lord Goldsmit, accusato di un triplice oscillamento di opinione durante i 45 giorni precedenti l’inizio delle operazioni, si è giustificato dicendo di aver realizzato solo in seguito, ovvero in data 17 marzo, che il suo iniziale consiglio dichiarante l’assoluta necessità di una seconda risoluzione Onu per poter iniziare la guerra probabilmente era stato “troppo cauto” e che in realtà si poteva procedere anche senza di essa.

 Servizi Segreti,  Equipaggiamento e Nation-Building.

Un altro obbiettivo dell’inchiesta è analizzare il ruolo dei servizi segreti e valutare quanto i dossier da essi prodotti siano stati manipolati a fini politici. È il caso di un documento del settembre 2002 appartenente al britannico“Joint Intelligent Committe”, che ottenne l’attenzione della stampa per una dichiarazione contenuta al suo interno: “L’Iraq appare in grado di lanciare armi chimiche ad ampio raggio in 45 minuti dall’ordine”. Questo fu sufficiente per fomentare l’impressione che Saddam costituisse una vera ed imminente minaccia per la comunità internazionale, Regno Unito incluso. In seguito, però, si scoprì che questa affermazione era riconducibile soltanto ad unica e dubbia fonte.

Altro argomento di discussione è il ritardo nella preparazione delle truppe e il loro inadeguato approvvigionamento. A questo proposito, il 5 marzo 2010, Gordon Brown, l’allora Cancelliere, è stato chiamato a testimoniare, sotto pressione per aver destinato ai militari impegnati in Iraq fondi insufficienti. Davanti alla commissione, l’attuale primo ministro ha insistito sul fatto che le truppe ricevettero tutto l’equipaggiamento da loro richiesto. “In ogni momento, i comandanti erano in grado di chiedere l’equipaggiamento di cui necessitavano e non conosco nessuna occasione in cui questo gli sia stato negato” ha commentato Brown, aggiungendo che la guerra in Iraq e Afganistan è costata 18 bilioni di sterline, ma che il governo è stato in grado di provvedere alle spese usando riserve e tagliando “altrove”. Ed è forse per questo “taglio altrove” che gli studenti delle università londinesi ora manifestano per la diminuzione dei fondi destinati all’istruzione.

Infine, l’ultimo punto dell’Inquiry riguarda se si fossero concordati dei piani di stabilizzazione per il periodo successivo all’invasione. Ed è a proposito di questo argomento che Blair accenna il suo unico mea culpa, il 29 gennaio, dichiarando la debolezza dalla strategia di Nation-building e la mancanza di armonia nella programmazione con gli Stati Uniti.

 Lezioni non imparate

L’Iraq Inquiry dovrebbe arrivare a delle conclusioni a breve. C’è chi dice che, in fondo, l’inchiesta rappresenti soltanto uno spreco di tempo e di risorse, e non sia altro che una carrellata di “e se” di discutibile utilità. Tuttavia, 179 soldati britannici, 4380 americani, 38 italiani e tra i 95 mila e i 105 mila civili e soldati iracheni, secondo l’Iraq Body Count, hanno trovato la morte durante o subito dopo il conflitto. Inoltre, secondo un servizio della BBC in onda il 4 marzo 2010, il numero di bambini affetti da malformazioni alla nascita è salito a 3-4 casi al giorno, anche se nessun medico iracheno è disposto a denunciare che questa sia una diretta conseguenza della guerra. Ad oggi, l’Iraq rimane una fragile democrazia elettorale, lambita dai rigurgiti della guerra civile scoppiata subito dopo l’invasione.

A fronte di tutto ciò, l’idea rimettere in discussione la decisione di intraprendere la guerra, non sembra del tutto irragionevole, e, forse, qualche lezione da imparare c’è. Come però esiste il rischio che la lezione appresa venga ignorata: una storia simile potrebbe ripetersi molto presto in Iran. Infatti, mentre sia l’Onu che Ahmadinejad dichiarano l’assenza di armi nucleari nel paese, l’intelligence statunitense dice di aver trovato tracce di attività nucleare fermatasi nel 2003. Lo stesso Blair, nella sua testimonianza ha ribadito più volte la necessità di fare attenzione ad uno stato, l’Iran appunto, in cui si stanno sollevando questioni del tutto simili a quelle sollevatesi in Iraq all’inizio del nuovo millennio. Una trama poco originale. Speriamo che questa volta nessun latte venga versato.

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