La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Reportage dal campo profughi di Antakya, Turchia.

Scritto da – 27 Gennaio 2012 – 16:57Un commento

Un anno fa, grazie all’onda di modernizzazione partita dalla Tunisia e capace poi di investire gran parte dei paesi africani e del medio oriente, in Syria è cominciata una guerra civile scatenata dalle forze governative guidate dal presidente Bashar al-Assad. A scatenare tanta violenza sono bastate le proteste di alcuni giovani siriani convinti di poter richiedere ed avere diritto alla stessa democrazia di cui tanto il mondo “occidentale” si fa vanto e che tanto sta provando ad esportare in tutta l’area mediorientale (nel quale il petrolio è l’ago della bilancia). A queste richieste il presidente Assad ha risposto con la violenza, servendosi dell’esercito ha messo in pratica una vera e propria “dittatura militare” che sulle sue spalle conta non poche centinaia di morti.Come in ogni situazione nella quale a farla da padrona è la violenza armata di mitra e carriarmati, si vengono a creare quei flussi migratori formati da uomini, donne e bambini costretti a cercare riparo e asilo nei paesi confinanti per sfuggire alla morte.

Questo è il caso di Antakya, cittadina nel sud della Turchia che per la propria posizione strategica, dista poco più di 5 chilometri dal confine siriano, è stato il primo riparo per i tanti rifugiati. Bisogna precisare che il governo turco nell’accogliere i vicini, si è tenuto su una linea che potremmo chiamare di “sicurezza”. Se è vero che al momento ad Antakya nei due campi situati a Yayladagi possiamo contare quasi 10.000 siriani, è altrettanto vero che questi non sono ancora stati riconosciuti come rifugiati politici dal governo presieduto da Erdogan ma bensì la manovra di accoglienza è racchiusa sotto al nome di “temporary protection”. In pratica ai suddetti il governo provvede una sistemazione comprensiva di “vitto e alloggio”, un permesso di soggiorno valido un anno estendibile fino ad un massimo di tre e, grazie a dei cavilli legali, la Turchia si trova ad avere “l’esclusiva” sui rifugiati. Se la guerra in Syria durasse più di tre anni, i “rifugiati” sarebbero costretti a tornare nel loro Paese natale con il rischio di essere uccisi dai soldati sulla linea di confine o, ancor peggio, in caso la Turchia dichiarasse guerra alla Syria, i 10.000 si ritroverebbero in una situazione decisamente “scomoda” per motivi che risultano ovvi.

Un ora di pulmino ed ecco apparire le prime tende blu, i primi segnali di quel pezzo di Syria trapiantato in Turchia. Provo ad entrare ma al cancello mi vietano l’ingresso e subito un gruppetto di gente mi si avvicina. Cominciano a parlare, raccontano le loro storie, provano ad attirare l’attenzione sulle loro “ferite di guerra”. Semir mi racconta. “La guerra è cominciata di notte. I soldati sono entrati casa per casa e hanno sparto a chiunque provasse a scappare”. Come siete riuscite a passare il confine? “Abbiamo corso cercando di evitare le pallottole, altri hanno avuto scontri con i soldati e molti ancora sono riusciti ad oltrepassare il confine nascosti in qualche mezzo di fortuna”. E i bambini? “Anche loro hanno corso. In Siria non esiste più una logica e Assad vuole la dittatura”. La tensione è alta nel campo e la visita di colui che è stato insignito della carica di “responsabile”  non aiuta a calmare le acque. Capisco che i rapporti non siano dei migliori e cerco di cambiare argomento. Una camionetta piena di soldati mi passa alle spalle e ancora una volta le voci si accavallano. Volete tornare in Siria? Questa volta a rispondermi è Ahmed: “In Siria staremmo meglio – mi dice. Qualcuno ha provato a rientrare ma i soldati gli hanno sparato al confine. Il nostro problema e Assad e finchè non sarà messo in galera siamo costretti a rimanere qui”.

La cittadina di Yayaladagi conta 2000 abitanti e mi informo sui rapporti con i locali. “Non abbiamo problemi di nessun tipo – mi rispondono – le persone ci hanno accolto e non ci sono mai state occasioni di scontro”. Dietro alla prima casa scorgo un gruppo di donne rigorosamente con il velo, vorrei soffermarmi qualche secondo in più ma la parola police mi fa capire che è ora di allontanarsi. Intanto a livello governativo è stato predisposto lo spostamento del campo da Yayaladagi a Kilis, cittadina poco lontana da Gaziantep, dove ai rifugiati verranno messe a disposizione delle cabine riscaldate per sopportare il freddo invernale. Quella in Siria non è che una delle tante realtà del medio oriete nella quale donne, bambini e uomini richiedono il rispetto dei propri diritti e un governo più democratico; purtroppo a queste rivendicazioni seguono sangue e migrazioni, un cane che si morde la coda al quale assistiamo inerti.

 

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