La condizione dei detenuti in Italia: una questione impellente
Come si vive oggi all’interno delle carceri italiane? Occuparsi e preoccuparsi di carcere, afferma Daniela Pajardi, docente di Psicologia Giuridica presso l’Università Cattolica di Milano, sono due diverse modalità di approccio alla questione. Si tratta di un problema fortemente attuale, drammatico, che non fa onore al nostro Paese. Nonostante ciò, le Istituzioni perseverano nel porre l’accento sulla pena e a non attivare la molteplicità di interventi a più livelli, necessari a contrastare i fenomeni criminali. I numeri che descrivono questa realtà sono impressionanti. Secondo il censimento del D.A.P. (Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria), al 30 settembre 2013 la popolazione detenuta complessiva è costituita da 64.758 persone, di cui 2.821 donne. La capienza regolamentare è di 47.615.
Restringendo il focus alla Regione Lombardia, si osserva che nei 19 istituti presenti nel territorio potrebbe essere ospitato per legge un massimo di 6.040 detenuti, ma il totale complessivo è di 8.980. Salvatore Striano, uno dei protagonisti del film “Cesare deve morire”, è intervenuto recentemente nel programma Servizio Pubblico di Michele Santoro per testimoniare l’emergenza della situazione e l’importanza di un intervento di grande portata, ad esempio l’indulto, per far sì che un calderone bollente come il sovraffollamento carcerario non scoppi definitivamente. Ciò che colpisce delle parole di Striano è che il carcere, se vissuto come purtroppo avviene nella realtà, altro non è che una scuola di specializzazione del crimine.
Cosa può permettere ad una persona di ricominciare, di comprendere la portata del crimine commesso e predisporlo realmente alla rieducazione?
Per tentare una risposta a questa delicatissima questione, occorre osservare una delle poche realtà penitenziarie funzionanti in Italia: la casa di reclusione di Milano-Bollate. Essa nasce nel 2000 da un progetto sperimentale che vede come propri i seguenti obiettivi: il recupero dell’identità del recluso, la condivisione dell’organizzazione e la decarcerizzazione. Per mettere in atto tutto ciò, il carcere diviene un luogo di fermento culturale, professionale e formativo. In un carcere possibile, quello vissuto dai detenuti di Bollate, le celle sono aperte e le persone sono libere di circolare nei luoghi spaziosi e verdi dell’istituto. L’area trattamentale, alla quale hanno accesso gli operatori volontari, non è direttamente sorvegliata dalle guardie penitenziarie e si respira un clima di scambio e di voglia di conoscere l’altra faccia della detenzione.
Ma perché dovremmo “preoccuparci” del carcere? Il pensiero comune vede nella detenzione la più nobile espressione della Giustizia, il luogo dove “chi se l’è cercata” è giusto che vi resti, magari il più a lungo possibile. All’interno delle mura dei penitenziari viene a poco a poco relegato tutto ciò di cui la società si vergogna, di cui non vuole farsi carico, attuando così il meccanismo di difesa della rimozione: l’eliminazione di idee o impulsi inaccettabili attraverso un blocco del loro accesso alla coscienza. Tuttavia, una volta scontata la propria pena, il reo deve ritornare in quella società dalla quale era stato violentemente allontanato. Senza lavoro, dignità, onore, rispetto verso se stesso, egli non può nulla per ricominciare. L’unica alternativa sarà quella di tornare a delinquere, presumibilmente in modo più specializzato rispetto a prima, oppure di essere affiliato a qualsivoglia organizzazione criminale operante nel territorio. In tal modo, la sicurezza del cittadino non solo non migliora ma, con ogni probabilità, peggiorerà.
Rieducazione, risocializzazione, misure di detenzione alternative, indulto. Queste sono solo alcune delle soluzioni che possono e devono essere attuate per arginare la situazione drammatica nella quale ci troviamo. Perché la condizione dei detenuti nelle carceri è lo specchio delle capacità del nostro Paese di saper porre in primo piano l’uomo inteso come essere umano dotato di doveri e di diritti. Aldo Moro, nella redazione dell’articolo 27 della Costituzione Italiana, aggiunse il verbo “tendere” prima di “rieducazione”. Rieducare un condannato, infatti, è lo scopo della pena, non un fine secondario, né un’aggiunta umanitaria.
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