Se questo è il tifo: l’omicidio Esposito
Morire. Morire a 28 anni. Morire a 28 anni mentre si sta andando allo stadio a vedere la partita. Morire a 28 anni mentre si sta andando allo stadio a vedere la partita per difendere i passeggeri di un pulmino, diretti anche loro allo stadio, che vengono attaccati senza nessuna ragione dalla tifoseria avversaria. Avversari. Forse è questo il problema. Il tifoso della squadra contro cui la tua sta per giocare non viene visto da alcuni ultrà come un uomo, esattamente uguale e diametralmente opposto a se stesso solo per la fede calcistica, ma come un nemico, un oppositore, da distruggere per dimostrare la propria superiorità, niente di più e niente di meno di quello che facevano i barbari 2000 anni fa. Loro almeno erano giustificati dalle motivazioni di fondo che li spingevano ad agire, la conquista del territorio su cui stabilirsi o peggio ancora la sopravvivenza. La violenza urbana non può mai trovare giustificazione, men che meno quando a farne le spese è un ragazzo con la sola colpa di volersi divertire un sabato sera.
Ciro Esposito era il suo nome, era cresciuto in una realtà difficile come quella di Scampia ma questo pareva non averlo corrotto come spesso succede, conduceva una vita normale e i familiari dicono si sarebbe presto sposato con la sua fidanzata Simona. Fare progetti di vita a quell’età è l’azione più legittima di tutte, pensare al proprio futuro senza riserve, quando si vede ancora l’inizio ma sicuramente non la fine. Ma l’inizio della fine è arrivato a Roma, in quella maledetta finale di Coppa Italia del 3 maggio. Gli organizzatori e le autorità avevano scelto la Capitale come terreno neutrale per l’incontro tra Napoli e Fiorentina, sperando di smorzare la tensione, ma la scontro tra le tifoserie è stato comunque acceso. Un gruppo di persone ha attaccato il pulmino dei tifosi del Napoli che stava arrivando allo stadio, Ciro ha fermato uno di questi che, per tutta risposta, gli ha sparato una serie di colpi, ferendolo a morte. Lo stesso Ciro avrebbe riconosciuto il suo aggressore nel letto di ospedale, prima di perdere coscienza.
Come si suol dire la magistratura farà il suo corso, ma l’esito degli eventi non cambia: un ragazzo è morto in una giornata che sarebbe dovuta essere contrassegnata solo dall’euforia e dal sano spirito agonistico; dall’azzurro del Napoli o dal viola della Fiorentina, non dal rosso del sangue. Non è la prima volta che un uomo muore in queste circostanze; il giorno dei funerali tutti invocano giustizia e la speranza che eventi del genere non si ripetano mai più in futuro, con la disperazione nella voce data dalla convinzione che ciò non avverrà.
Solo 7 anni fa l’esplosione della violenza collegata al mondo calcistico era costata la vita a due persone, Filippo Raciti e Gabriele Sandri; un poliziotto e un tifoso, appartenenti agli “schieramenti” opposti ma accomunati dallo stesso destino, una morte inconcepibile. Li si ricorda come si fa con le vittime di una guerriglia inevitabile, con la rassegnazione negli occhi aspettando il prossimo caduto, e così è successo a Ciro.
Tutte le leggi che possono essere promulgate per arginare la violenza fuori dagli stadi, le diffide, le multe, i processi penali, non serviranno a nulla se non cambia lo spirito con cui si affrontano eventi sportivi di questa portata. Andare allo stadio con mazze e coltelli non può e non deve essere considerato normale. Sono i tifosi veri, che vogliono godersi solo la pura adrenalina della sfida, che dovrebbero emarginare questi soggetti, che sfruttano il calcio come valvola di sfogo per la loro rabbia repressa, che contaminano e inquinano il divertimento sportivo e il mondo del calcio in generale. Le curve e le tifoserie dovrebbero essere luoghi in cui sentirsi parte di un gruppo perché si condivide una passione, non perché si è uniti dall’istinto animale di annientare chi viene riconosciuto come “il nemico”, che sia un ufficiale di polizia o un appartenente alla tifoseria avversaria.
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