Franz Kafka, Il processo. Perché fino alla sentenza siamo tutti colpevoli.
«Lei è un novellino, è giovane. Il suo processo ha sei mesi, vero? Sì l’ho sentito dire. Che processo giovane!». Pur non avendo potuto disporre di un’esistenza terrena lunga quanto quella di altrettanto celebri scrittori, a causa di una dolorosa tubercolosi che ne recise violentemente e ingiustamente il filo, Kafka fu comunque in grado di lanciare addosso alla società del suo tempo una serie di sonore frustrate il cui schiocco echeggia ancora oggi. Ben si sa quanto l’immaginazione dello scrittore, di origini ceche ma scrivente in tedesco, fosse incline alla creazione di mondi paralleli, del tutto simili a quello reale, ma con la sola fondamentale particolarità di rappresentarne un’allegoria, una caricatura, incentrata quasi sempre sui tanti paradossi che fanno della vita dell’uomo una continua allucinazione. Il Kafka della maturità, quasi nello stesso momento in cui stava pensando ad una collezione di racconti che avrebbe contenuto, fra gli altri, anche La Metamorfosi, andava progettando, e realizzò di lì a poco, una curiosa satira della giustizia, sotto forma di breve romanzetto, al cui successo nemmeno lui – ne siamo sicuri – dovette credere. Il corpo principale de Il processo si concretizzò tra la calda estate del 1914 ed uno degli inverni più rigidi per l’Europa, quello del ‘15, per quanto Kafka non si decise a dare subito alle stampe il romanzo per potervi lavorare ancora. Il manoscritto giunse, infine, tra le mani di un amico di Kafka che, sebbene lo ricevesse con l’ordine di bruciarlo poiché ritenuto incompleto dal suo autore, lo pubblicò ugualmente, giudicandolo evidentemente degno di essere divulgato.
In quest’opera, come in altre, Kafka racconta una vicenda che per molti tratti non si discosterebbe affatto da una qualunque banale vicenda quotidiana. Ciò che invece rende unica la vicenda capitata al protagonista, un tale Josef K., mai citato nel libro con il nome esteso ma sempre e solo come K., è di non possedere una causa, ma di essere nata “un giorno”, priva di un motivo scatenante, e di modificarsi lentamente e inesorabilmente come se fosse dotata di vita propria.
Una mattina, un distinto funzionario di banca, sulla trentina, riceve a casa sua la visita di alcuni uomini, che hanno l’ordine di notificargli il suo arresto e di comunicargli che a suo carico da quel momento è stato aperto un procedimento giudiziario, ma senza metterlo al corrente della colpa o del crimine da lui commesso. Tutto ciò che K. ha per ora il diritto di sapere è che subirà un processo da parte del tribunale. Naturalmente K. invoca dei chiarimenti, e di fronte al silenzio di quegli agenti, pretende di parlare con qualcuno che occupi una posizione più elevata e che sappia dirgli di quale assurdo crimine si è mai macchiato, dato che ha sempre condotto una vita irreprensibile sotto tutti i punti di vista. La formazione e l’educazione spingono K. a cercare di risalire la china di quella assurda disgrazia che rischia di far affondare la sua carriera, di fargli perdere gli affetti e la credibilità di cui aveva goduto agli occhi della sua famiglia. Pian piano, la voce che K. ha “un processo” si diffonde tra tutti i suoi conoscenti, gettandolo nella più completa disperazione.
La vicenda giudiziaria di K. rivela dei lati sempre più oscuri e spaventosi. Le aule dove dovrebbero svolgersi le udienze sono dei sottotetti, situati in palazzi in cui vive gente di bassa condizione. Nessuno conosce o ha mai visto i fascicoli del processo di K. Gli altri imputati delle altre cause sono come fantasmi che si aggirano gemendo e urlando tra quelle aule, come se fossero sospesi in un limbo. K. scopre che la sua colpevolezza può aumentare o diminuire in base all’arbitrio dei funzionari del tribunale, in più che gli avvocati sono come delle chimere, avvolte nella leggenda, che nessuno ha mai visto. K. a fatica raccoglie quante più informazioni può riguardo l’iter di un processo, attraverso incontri fortuiti con personaggi che sembrano usciti da una nebbia fitta, i quali danno una versione allucinante dei processi, ma tutti sembrano concordare – pur senza arrivare mai a questa conclusione – sul medesimo punto, e cioè che il “processo” che è capitato a K. può durare senza alcun limite di tempo, anche per parecchi anni, e che lo status che più rassomiglia a quello di un imputato è quello di un malato cronico, che una volta colpito da un morbo, non può fare altro che attenuare i sintomi, giocando a rimandare il più possibile l’esito, molto probabilmente, nefasto, della malattia.
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