La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Il passaggio del testimone. L’ascesa di berlusconi e la nascita di forza italia

Scritto da – 5 Settembre 2010 – 17:072 commenti

«Forza Italia è nata dalla trattativa tra Stato e mafia». Nell’aula bunker del’Ucciardone, il carcere di Palermo, Massimo Ciancimino,  il figlio di don Vito, ex sindaco mafioso della città, parla. Non è un teste, non è un pentito. È un dichiarante. Le sue confessioni-fiume stanno rimettendo in discussione tutto ciò che la magistratura sapeva sulle stagione delle stragi. E gettano un ombra sull’ex partito del Premier, Forza Italia. Non è l’unico ad aver riesumato il fantasma dei contatti Stato-mafia. Nel dicembre 2009 a Torino fu ascoltato anche Gaspare Spatuzza, killer che lavorava per i Graviano, pentito dal 2008. Spatuzza dichiarò: «Graviano mi disse di un patto con Berlusconi». Dell’Utri l’accusò di essere manovrato da pm corrotti. Poche settimane dopo deposero anche i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Il primo disse di non conoscere Dell’Utri e il senatore Pdl si meravigliò per la sua dignità. Un vero uomo d’onore, questo si credibile. Il fratello, invece, non volle parlare: «Il mio stato di salute – sostenne – non mi consente di rispondere all’interrogatorio. Quando potrò informerò la Corte». I due mafiosi, mai pentiti, se da un lato smentivano Spatuzza dall’altro lasciavano intendere di avere ancora molto da dire.

Secondo alcuni, le dichiarazioni di Ciancimino mirano solo a sparigliare le carte, a gettare fango e ignominia sulla politica italiana. Mafioso il padre, mafioso il figlio. È stato anche condannato in primo grado per quattro casi di riciclaggio del denaro sporco di don Vito. Secondo altri è un uomo coraggioso che ha messo a repentaglio la sua vita per ristabilire un briciolo di verità in un buco nero della storia: il legame tra politica e mafia. Chiunque sia, Ciancimino ha deciso di parlare dal gennaio 2008. A seguito di un’intervista rilasciata a Panorama nell’ottobre 2007, fu chiamato alla procura di Caltanissetta per testimoniare.  E a chi gli chiede perché ha aspettato tanto tempo prima di parlare risponde: «Prima del 2008 nessun giudice mi ha chiesto niente. Nemmeno a mio padre. Io mi limito a rispondere alle domande, senza omertà». Gli avversari,  però, sostengono che Ciancimino jr miri a benefici in termini di trattamento sanzionatorio, nonché a mantenere all’estero le somme di denaro che ancora non gli sono state sequestrate.

Resta un fatto: le risposte di Ciancimino possono fare molto male. Dell’Utri, con il suo lessico ciceroniano, le ha definite «minchiate», Berlusconi le ha dipinte come l’ennesima prova di un disegno della magistratura teso a sabotarlo.  Cinancimino, consapevole della gravità delle sue affermazioni, si presenta sempre in aula con i documenti. E se la carta che porta canta, allora  c’è una lettera, consegnata ai magistrati di Palermo il 18 febbraio, che è stata scritta dal padre don Vito. Questa, scritta in accordo con il  boss Bernardo Provenzano, ha come destinatario “l’amico Dell’Utri” e, per conoscenza, anche “l’amico Berlusconi”. La lettera risale al 1994. Nell’intestazione si legge «al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi». Don Vito nella missiva richiama i due amici del Nord a rientrare nei ranghi, a rispettare gli accordi presi in precedenza, altrimenti uscirà dal riserbo mantenuto fino a quel momento. E racconterà a tutti che Forza Italia nasce da un patto scellerato, in cui ci sarebbe la longa manus dei servizi segreti, dei Ros e la connivenza della classe politica, l’ex ministro della difesa Nicola Mancino in primis.  Mancino è l’unico politico ad aver parlato esplicitamente di “trattativa”, anche se, ha spiegato a Repubblica il 18 settembre 2009, il Governo respinse l’idea «anche come semplice ipotesi di alleggerimento dello scontro con lo Stato».

Eppure, i pm palermitani Ingroia e Di Matteo sostengono che una trattativa c’è stata. Anzi, sarebbero addirittura due. La prima si situerebbe tra la strage di Capaci del 23 maggio 1992, che costò la vita a Giovani Falcone, e la strage di via D’Amelio del 19 luglio dello stesso anno, in cui morì l’altro giudice del pool antimafia Paolo Borsellino. Erano gli anni della crisi della politica, di Tangentopoli e del ribaltone della Prima Repubblica. Anche l’antistatostato mafioso si trovava in balìa della rivoluzione politica in atto. Ma i siciliani sanno che tutto cambia affinché alla fine tutto resti uguale. Così se quei “crasti” (fessi) di socialisti e di democristiani si erano fatti beccare, allora si sarebbe trovata qualche nuova forza da ricattare per ottenere una garanzia politica. Ma, come diceva Riina, «Bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace». Alla mafia serviva uno Stato fragile e terrorizzato. La magistratura da troppo tempo aveva le mani libere e stava colpendo con forza la mafia: la legge sulla confisca dei beni, il 41 bis, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Tutti provvedimenti approvati nel corso degli anni ’80 e che avevano messo in ginocchio la mafia. Il pool antimafia di Falcone e Borsellino sarebbe stato forse in grado di mettere all’angolo la criminalità organizzata.

Il 15 gennaio 1993 segna la fine della prima fase degli accordi tra Stato e mafia. È il giorno dell’arresto di Salvatore Riina. Il capitano Ultimo del Cirmor (una sezione dei Ros), alias Sergio De Caprio, stava da giorni alle costole dell’allora capo di Cosa Nostra, insieme a Provenzano. Il prefetto Mario Mori, il colonnello Mauro Obinu e il capitano De Donno erano riusciti ad ottenere da Vito Ciancimino e dall’ex autista di Riina Balduccio Di Maggio la piantina della villa del boss dei boss in via Bernini a Palermo. Dopo uno spettacolare inseguimento, Riina viene catturato. Peccato che De Donno e Mori dopo non si preoccupano di perquisire l’abitazione. Mori e De Donno verranno inseriti nel registro dei indagati per favoreggiamento, poi scagionati. Le parole di Massimo Ciancimino rimettono in discussione anche l’esito di quel dibattimento. Fuori gioco Riina, ai Corleonesi resta un unico boss: Bernardo Provenzano. « È stato Provenzano a tradire Riina» spiega Massimo Ciancimino al Tribunale di Palermo, il 6 novembre 2009, durante un interrogatorio per il processo a suo carico. U’Tratturi, così era chiamato Provenzano, era stufo dei deliri di onnipotenza di Riina e della sua strategia sanguinaria. Voleva inaugurare la “seconda fase” della trattativa con lo Stato e chiudere con le stragi. Però, per fare questo, aveva bisogno di far fuori Riina. E così, secondo il disegno tratteggiato da Cinacimino, Provenzano avrebbe fatto in modo che una soffiata giungesse ai Ros. La contropartita della cattura di Riina sarebbe stata la sua libertà. Questo è il risultato della “seconda fase della trattativa”. Bernardo Provenzano è stato catturato l’11 aprile 2006, dopo 40 anni di latitanza. Eppure nel 1995, a Mezzojuso nel palermitano, i Carabinieri avrebbero potuto arrestarlo. L’allora capitano Michele Riccio avrebbe voluto intervenire, ma Mori non gli diede il permesso. Per questo, oggi, il prefetto  è ancora sotto processo.

Per cambiare fase, però, era necessario avere un garante politico. Questi sarebbe stato un «esponente di rilievo della nascente formazione politica». Massimo Ciancimino fa il nome di Marcello Dell’Utri e di Forza Italia. Il senatore, quindi, si sarebbe sostituito a Vito Ciancimino nel ruolo di intermediario tra politica e mafia. L’anello di congiunzione delle due fasi sarebbe la mancata cattura di Provenzano, nel 1995. I procuratori oggi sanno che il negoziato iniziato nel ’92 non si chiuse in pochi mesi, ma si protrasse sino proprio all’anno della cattura di Provenzano. 

Nella lettera consegnata dal figlio ai magistrati di Palermo, Vito Ciancimino scrive« intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco) perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi». Il “triste evento”, spiega il figlio Massimo, consisterebbe nel sequestro di uno dei figli di Berlusconi. Silvio Berlusconi in più occasioni ha ricordato di aver avuto a che fare con la mafia proprio per scongiurare tale rischio. Se l’affermazione di Ciancimino jr fosse esatta, sarebbe la testimonianza di un Berlusconi messo in scacco dalla mafia. Per colpa di Dell’Utri, lo stesso amico siciliano che portò il mafioso Vittorio Mangano a fare da stalliere nella villa di Arcore. Il documento testimonierebbe una “terza fase”, con protagonista Dell’Utri e Forza Italia. «Mio padre – spiega Ciancimino jr. – mi disse che fra il 2001 e il 2002 Provenzano sentì di nuovo Dell’Utri. «Papà – dice ancora Massimo Ciancimino in un intervista al Fatto Quotidiano- trovava allucinante che un imprenditore come Berlusconi, nel momento in cui i figli erano a rischio attentati, si rivolgesse a uno come Mangano! Questi erano i classici “metodi accerchiativi”, come diceva mio padre, di personaggi come Dell’Utri, per rendersi indispensabili a Berlusconi: fai le minacce per accreditarti sempre di più, e poi dai le soluzioni». Ma i particolari inquietanti che emergono dalle deposizioni di Ciancimino non si esauriscono qui.

La missiva in mano alla procura di Palermo, infatti, non ha solo un valore “in praesentia”. Non è solo un documento che potrebbe inchiodare Dell’Utri & co. a pesantissime responsabilità. Ha anche un valore “in absentia”, nel senso che, stando alle parole di Ciancimino jr.,  manca di parte cospicua del documento. «Fino a pochi giorni prima della perquisizione fatta dai carabinieri – spiega Massimo Ciancimino – nel 2005 a casa mia,nell’ambito di un’altra indagine, il documento era intero. Ne sono sicuro. Non so cosa sia successo dopo». Fosse vero, sarebbe la conferma dell’importanza del documento. Durante quella perquisizione di Villa Ciancimino a Mondello, accadde anche un altro fatto strano, di cui Massimo non si dà una ragione. «Nessuno dei carabinieri presenti – accusa il testimone – chiese di aprire la cassaforte, che era ben visibile nella stanza di mio figlio». In quella cassaforte avrebbero trovato il famigerato “papello”. Ciancimino nell’audizione torna anche a nominare «il signor Franco», l’agente dei servizi segreti in contatto con Vito Ciancimino e Provenzano.  «Dopo un’intervista con Panorama, in cui emergeva in qualche modo un mio ruolo nell’arresto di Riina – prosegue Ciancimino – il signor Franco mi invitò caldamente a tacere e a non parlare più di certe vicende perché tanto non sarei mai stato coinvolto e non sarei mai stato chiamato a deporre. Cosa che effettivamente avvenne visto che fino al 2008, quando decisi di collaborare con i magistrati, nessuno mi interrogò mai». Anche durante gli arresti domiciliari Massimo Ciancimino avrebbe ricevuto una strana visita: «Un capitano dei carabinieri – dice il testimone – mi invitò caldamente a non parlare della trattativa e dei rapporti con Berlusconi».

 Sembra che, comunque, tutto questo non abbia convinto i giudici che si occupano del processo a Marcello Dell’Utri a inserire fra i testimoni anche Massimo Ciancimino. Il 5 marzo, dopo due ore e mezzo di camera di consiglio, i giudici palermitani hanno rigettato la richiesta del procuratore generale Nino Gatto, che chiedeva la sospensione del processo per ascoltare la deposizione di Ciancimino. La richiesta era stata avanzata dopo le rivelazioni di Ciancimino nel corso di interrogatori riguardanti il processo Mori e Obinu. Il figlio dell’ex sindaco diceva anche di conoscere gli investimenti dei boss mafiosi Stefano Bontate e Giovanni Teresi a Milano 2. Oltre che il giro di interessi del padre e di un gruppo di costruttori legati alla mafia. Forse, le deposizioni di Ciancimino avrebbero potuto rivelare qualcosa circa la provenienza dei miliardi che Berlusconi ha dirottato sulla costruzione delle new town attorno a Milano. Ma questa è un’altra storia, di cui qualcuno non vuole che si parli.

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