Calo iscrizioni alle facoltà umanistiche e ai licei classici: il crepuscolo degli studi umanistici
Quale destino per gli studi umanistici? In un’Italia dove la crisi è per tutti, qualcuno pare soffrirne un po’ di più. Sempre più neolaureati alla ricerca di impiego si candidano per posizioni al di sotto del proprio titolo di studio, pur di non restare bamboccioni, per sempre mantenuti dai genitori. A tal scopo, omettono la laurea dal curriculum. Perché, altrimenti, si sentirebbero rispondere che sono overqualified (per usare un termine amato dai datori di lavoro). In effetti, per lavorare in un call center o in un bar, di una laurea ce ne si fa poco. La categoria più soggetta a questo fenomeno? Sono i candidati di sesso femminile con una laurea in materie umanistiche. D’altra parte vediamo che le immissioni in ruolo promesse per quest’anno si stanno rivelando, per molti aspiranti insegnanti, in una nuova delusione.
Emblematico il caso del Lazio, dove, trascorso il termine ultimo per le nomine in ruolo (31 agosto), non è stata pubblicata nessuna graduatoria definitiva del concorso, per il protrarsi dei lavori delle commissioni. Altrove (Molise), a causa degli scarsi posti messi a disposizione, i vincitori del concorso dovranno aspettare anni prima di assumere effettivamente il ruolo. Quello che dovrebbe essere uno degli sbocchi principali per i laureati in ambito umanistico continua a essere un terreno instabile, su cui è pericoloso arrischiarsi. Allora perché stupirsi se le iscrizioni alle facoltà umanistiche subiscono un calo? Se la tanto decantata cultura generale fornita da queste lauree non aiuta a trovare un impiego degno di un laureato, o addirittura è d’intralcio quando si cerca di portare a casa la pagnotta, chi punta a un altro tipo di facoltà ha solo capito come tira il vento.
È facile, per certi giornalisti o professori già insediati, lamentarsi per il calcolo utilitaristico degli studenti che preferiscono corsi scientifici o tecnici. La verità è che di martiri della cultura ce ne sono già troppi. “Con la cultura non si mangia” è una battuta ormai celebre, che fu subito biasimata. Ma questo mondo in cui viviamo continua a dimostrarcelo; senza parole, con i fatti.
Non è un problema solo italiano, dopo tutto, se è vero che anche a Harvard solo il 20% degli studenti nel 2012 ha conseguito una laurea in materie umanistiche. Secondo il Wall Street Journal, rispetto a un’epoca un po’ più gloriosa per gli studi umanistici, gli anni ’60, si sono persi più di metà degli iscritti. Gli universitari americani sono spaventati almeno quanto quelli italiani da lauree che promettono solo l’autostima che può derivare da una vasta cultura e pacche sulle spalle da parte degli altri. È giusto così, i tempi cambiano, la locomotiva del progresso ci trascina tutti in avanti a velocità vertiginosa. E l’arte e la letteratura non conoscono il progresso. È normale che in un mondo in cui la cosa più importante è guardare sempre oltre lo studio del passato sia una zavorra fastidiosa. Mai come oggi, più che sapere, è importante saper fare. E un laureato in Lettere, di solito, non sa fare nulla. In fondo non è vero che “con la cultura non si mangia”; è solo un nuovo tipo di cultura quello che permette oggi di sopravvivere.
Non più la cultura del passato, ma quella del futuro. La cultura del fare, che soppianta quella del pensiero. Anche i più piccoli capiscono l’andazzo. Il liceo classico italiano soffre di un drastico calo di iscrizioni, i ragazzi preferiscono istituti che aprano a sbocchi lavorativi. “Bisogna adeguarsi al modello europeo” non è una formula che torna spesso nei titoli dei giornali? E questo è ciò che sta succedendo. Il liceo classico, nato con l’unità d’Italia su imitazione degli istituti tedeschi, ormai è rimasto unico nel suo genere in Europa. Che il tempo stia scadendo anche per noi? Cambierà, ci ripetiamo, qualcosa cambierà. Ma in che direzione avverrà questo cambiamento? I segnali non sono favorevoli per gli studi classici e umanistici. Nessuno, a partire dai ragazzini di terza media, vede più il senso di questi insegnamenti, a nessuno interessano più. Poche anime ostinate continuano a dedicarvi anni della propria vita, ma sono sempre troppe per i pochi posti di lavoro che ci sono. Sono sempre troppi don Chisciotte derisi da tutti.
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Sara: risposta interessante, tuttavia la parte “Perché chi non sa pensare con la sua testa, chi non ha spirito critico, quello spirito critico che lo studio della Letteratura, della Filosofia, della Storia e della Storia del Pensiero insegna, è più facile da ingannare e da comandare.” mi sembra una generalizzazione troppo azzardata. Conosco laureati e studenti di materie scientifiche che hanno molto più spirito critico di laureati e studenti di materie umanistiche. Anzi, addirittura conosco persone non laureate, al massimo diplomate o solo con la terza media, che sanno pensare con la propria testa e tutto il resto.
Il titolo di studi, per quanto riguarda questa parte del discorso, è solo un di più: lo spirito critico e il saper pensare con la propria testa sono qualità che devono già essere presenti nel nocciolo di un individuo, gli studi e la cultura possono solo espanderli, ma non crearli da zero.
Mi hai tolto le parole di bocca. A mio avviso il problema è che spesso gli studenti universitari e i laureati mancano di umiltà. Tronfi della loro cultura (che nella maggior parte dei casi si limita al loro campo di studi), spesso dimenticano di non essere al di sopra di chiunque altro, qualsiasi sia il suo titolo di studio. Confondono cultura ed intelligenza, dando per scontato che una persona ignorante sia di conseguenza stupida e incapace di pensare con la propria testa. Il solo fatto di paragonarsi a don Chisciotte, eroe cavalleresco nell’epoca sbagliata, trasuda arroganza. Detto questo, invito la scrittrice di questo articolo ad essere più umile e smettere di considerare i non universitari e i non laureati come una massa di pecore ignoranti controllate dalla società.
Chiedo scusa all’autrice dell’articolo e mi correggo: invito la scrittrice del commento ad essere più umile (per quanto non riesca a sopportare l’arroganza del paragone con don Chisciotte)