Un Gaberscik qualunque
Dieci anni fa ero in macchina, di ritorno dalla vacanza natalizia coi nonni in Liguria, ed “Il teatro canzone” suonava al suo posto, nella fedele autoradio della Golf, come tutti gli inverni amico di Mimì, di Fossati e di Guccini. Quanto allora pure oggi, anche senza Liguria e senza Golf. “Gaber bisognava vederlo” e aveva ragione M. Serra a scriverlo forte e chiaro il 2 Gennaio 2003. Perché è comunemente incontestato che quella mimica e quelle mani avessero fatto, di un Giorgio Gaberscik qualunque, il Signor G.
Appunto, il signore che nacque quattro volte. Prima meneghino borghese, dalla fibra piuttosto fragile, diplomatosi ragioniere e capace di suonare la chitarra grazie alla mano sinistra della sorte. Poco dopo fratello nei “Ghigo e gli arrabbiati”, nei “Rock Boys”, nei “Rocky Mountains Old Times Stompers” e ne “I due corsari”. Quindi equilibrista, tra un sangue che ribolle jazz e l’idea densa fatta di chanson française: popolarità, tubo catodico, dischi a gogò. Infine, profilo vestito di scuro e pensiero Luporiniano. Perenne, in piedi sotto l’occhio di bue, centro del palco, finalmente libero e solo, monologante degli uomini di fronte agli uomini nel solo luogo dove non esistono né filtri né barriere: la strada dello spettacolo, ovvero il suo Teatro.
ll Signore che viveva in questo mondo, ma non era di questo mondo. Con quello sguardo lì, sempre vigile e affilato a doppio taglio. Con quei gesti là, intelligenti e vorticosi.
Per quanto i critici abbiano detto, nessuna incoerenza nessuno snobismo nessun qualunquismo. Gaber è stato il Qfwfq della musica italiana da amare.Come un affluente in continua piena, che per natura non può e non si vuole fermare, che prende corpo nella terra che tocca e che se non gli basta se ne prende ancora, sempre con maggior forza vita e cervello. Già. Negli anni ‘70,quelle stesse sponde che lo avevano condotto al successo risultarono palesemente strette. G fece la rivoluzione, commise la rottura. Ne uscì vincitore: non era certo un pollo d’allevamento! Ma perché mai? In favore di un sincero ritrovarsi e di un ritrovare maschera, a volte comica a volte tragica(pur tuttavia di significato), la canzone sposata un decennio prima.
Ecco, a dieci anni da quel 1 Gennaio, Gaber non lo possiamo più vedere. Quello che abbiamo è tutto quello che ha incarnato, eppure non basta. Così, ben spalancate le finestre mentali, assorbiamo il suo linguaggio immaginando d’esser spettatori della scena. Proprio come Gaber va ascoltato. Proprio come “Io se fossi Dio”, “Un’idea”, “Il conformista”, “Il dilemma” sussistono e sussisteranno, irrimediabilmente cucitegli addosso. Necessariamente sotto i riflettori, e tutto il resto sa di “un non so”.
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