Gaber e i polli di allevamento: un ritratto sociale preconizzato
“Mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari e le altre cazzate, e finalmente non sopporto le vostre donne liberate con cui voi discutete democraticamente; sono diverso perché quando è merda è merda, non ha importanza la specificazione…
Autisti di piazza, studenti, barbieri, santoni, artisti, operai, gramsciani, cattolici, nani, datori di luci, baristi, troie, ruffiani, paracadutisti, ufologi… Quando è moda è moda … “ : un Giorgio Gaber non meno spregiudicato e impavido del solito quello che nel 1978 portò a teatro il suo caro lavoro “Polli d’allevamento”.
Con il suo teatro canzone, in due ore di marcata denuncia, il Signor G. polemizza contro il mondo giovanile accusato di velleitarismo e conformismo. Lo incolpa di aver lasciato cadere l’importanza dell’individuo che rischia di perdere i pezzi, a fronte della libertà personale e intellettuale cui inneggiava. Un individuo che soffre dei mali più comuni e alla moda: nevrosi acuta, condizionamento totale, visione delle cose vicino allo zero; una persona normale insomma. Per le strade e nelle piazze non si parla quasi più della vita. Alcuni scelgono strade prettamente politiche altri prendono posizioni di tipo misticheggiante.
Quello che in Libertà obbligatoria (1976-1977) era un sospetto di massificazione qui si trasforma da una parte in un impossibile intervento politico, dall’altra in uno decadenza inerte che assomiglia sempre più ad una moda.
La rappresentazione si chiude con Quando è moda è moda, che esplicita un po’ tutto quello che viene affrontato nelle due ore precedenti. Qui l’io narrante rivendica la propria diversità, la propria non accettazione rispetto a questo stato di cose. Un “io non ci sto” che crede nella forza dell’uomo e nella libertà dell’individuo come singolo e nulla più.
Lo spettacolo diventa così un urlo viscerale contro il virus del conformismo, una mitragliata al cuore della globalizzazione, valida all’epoca e quanto mai ora: mentre nel ’78 questo spettacolo era un grido di allarme e si rivolgeva soprattutto ai giovani di sinistra dell’epoca, oggi questo messaggio è rivolto a tutti, indistintamente. Non è più un allarme, è una condizione. Ed è proprio per questo motivo che Giulio Casale, con la collaborazione della Fondazione Gaber, sta riproponendo nei teatri di Milano e province lo spettacolo, con una perfetta attinenza all’originale, nei panni di un Giorgio Gaber più attuale che mai.
Meditiamo “Cari, cari polli d’allevamento…”.
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