Talk Show: il sano dibattito e i suoi nemici
Se leggessi su qualche giornale che l’Italia ha bisogno di dibattito, penserei che l’autore dell’articolo è pazzo, oppure masochista. I talk-show, letteralmente «spettacoli di chiacchiere», riempiono ormai il palinsesto di tutti i canali televisivi, propinando dibattiti confezionati, sui più svariati temi, a tutte le ore del giorno; le leggi in Parlamento restano ferme per mesi, a volte anni, sottoposte a infinite discussioni che durano così a lungo da renderne spesso obsoleto il tema centrale; fatti di cronaca di ogni specie vengono sezionati e poi strumentalizzati, al fine del dibattito politico, oppure per solleticare le emozioni dei telespettatori con l’obiettivo di aumentare i dati di ascolto; l’informazione, dai temi reali, è spesso deviata sul tweet di questo o quel personaggio, generando discussioni all’apparenza appassionati, ma sterili. Eppure, mi trovo qui a scrivere che, sì, sento la mancanza di un dibattito nel nostro bel Paese. Per meglio dire, ciò che percepisco assente è il dialogo, inteso come scambio di opinioni fondate, allo scopo di giungere, se non a un punto di convergenza, quantomeno a un arricchimento degli interlocutori e, nel caso dei media, soprattutto degli ascoltatori. Quello a cui siamo sottoposti in quanto fruitori passivi del dibattito è invece troppo spesso un esercizio di retorica. Sono parole al vento, usate per sostenere posizioni, alle volte neppure suffragate da evidenza alcuna, utili ai solo fine di convincere l’ascoltatore della bontà della propria squadra (la parola non è stata scelta a caso), e della malafede dell’altra. Perenne campagna elettorale, insomma, almeno nel caso dei politici, e rinvigorimento dell’ego o soddisfacimento di piccoli interessi personali per tutti gli altri, opinionisti di professione e sedicenti esperti. In questo modo ogni informazione perde completamente di valore in quanto, oltre a non sussistere più lo scopo del dialogo, non esiste neppure più una forma di valutazione sulla veridicità di ciò che viene detto.
In un certo senso è come se l’informazione gravitasse tutta intorno a una concezione sofista, secondo la quale ogni opinione è sostenibile e vera, in quanto nessuno è detentore della verità: fintato che chi parla sarà in grado di sostenere le proprie idee attraverso un buon uso delle parole, egli sarà dalla parte del vero. Questo modo di riflettere, seppure possa avere valore quando applicato alla filosofia e alle disquisizioni astratte, diventa pericoloso se usato per la concretezza dei fatti, perché permette ai non troppo degni eredi dei salotti intellettuali di una volta, di divenire una vetrina per opinionisti tuttologi e politici alla ricerca di voti. Allo stesso tempo per di più, non permette al cittadino di ottenere informazioni chiare, precise e veritiere. Diventa pericoloso perché permette a personaggi di dubbia caratura intellettuale di sostenere che i vaccini sono il male, senza addurre prove scientifiche di alcun tipo; diventa pericoloso perché permette agli avvoltoi politici di diffondere falsità sulle presunte condizioni di lusso in cui vivrebbero i migranti ospitati dal nostro Paese, fomentando l’odio; diventa pericoloso perché permette a ex governatori di regione, attualmente indagati per corruzione e associazione a delinquere transnazionale, di sedersi su una poltrona in diretta TV e pontificare sulla disonestà del capro espiatorio di turno, dimenticando che se mai gli venisse voglia di andare a trovare i vecchi consiglieri della sua giunta, dovrebbe farsi un giro a San Vittore; diventa pericoloso perché, anche in Parlamento, dove il dibattimento dovrebbe essere all’apice dell’ispirazione, permette di far volare insulti sessisti, razzisti o semplicemente villani, e di ricorrere a forme comunicative ben lontane dal dibattito costruttivo, il quale, seppure appassionato, dovrebbe restare entro i limiti che l’intelletto di un rappresentante pubblico dovrebbe disegnarsi da solo.
D’altro canto, se manca un contraddittorio degno di questo nome, la colpa non è solo di coloro che dicono fandonie, in quanto privi di qualsivoglia onestà intellettuale, ma di coloro che non le smentiscono. Dunque, chi incolpare? Il moderatore di turno, che non sa, o non vuole, porre domande incalzanti, in modo da mettere in difficoltà il bugiardo? O l’ascoltatore, che piuttosto che formarsi un’opinione personale attraverso il confronto di posizioni diverse, preferisce bersi l’ «opinione confezionata» , in base alla squadra di appartenenza? Forse, tutto sommato, la colpa è di tutti, ma a rimetterci è il dialogo, base della democrazia e, in ultima analisi, il Paese.
Antonella Serrecchia
Facebook comments: