Facebook: rinunciate alla privacy, o Voi che entrate
Come si può non parlare di “panico da privacy”, se accendendo il computer la prima cosa da fare di norma è inserire una password. Se non avessimo paura ad esporci o che altri occhi indiscreti frughino tra i nostri documenti o cartelle, nemmeno dovremmo impostarla. Così come dovremmo lasciare libero accesso al cellulare, dopo che ogni volta impieghiamo le ore, per digitare il codice a quattro cifre in mezzo al traffico, dentro la borsa con una mano sola, mentre siamo in riunione in ufficio o mentre gustiamo un pasto veloce. Eppure rivendichiamo questo diritto, rifiutando di essere costantemente sorvegliati o anche e solo avere la percezione di esserlo. Sembriamo maniaci del controllo, nulla deve sfuggirci.
Ma certe volte ci perdiamo in un bicchier d’acqua. Perché? Basta registrarsi ad un comune social network come facebook per “metterti in contatto con il mondo”, dove si entra talmente in confidenza che prima il monitor ti chiede: “ A cosa stai pensando?” e subito dopo “Ehi come stai?” e sei fregato. Sembra di compilare un dossier in cui ti viene richiesto di inserire quelli che sono definiti “dati sensibili”: nome e cognome, data di nascita e il luogo, la tua mail, l’orientamento politico, religioso e sessuale, la professione, le lingue che parli, il numero di cellulare, il tuo stato sentimentale e il colore delle mutandine che indossi. A meno che tu non trascorra un potenziale pomeriggio di studio o lavoro per leggere le ventisette pagine di normativa all’informazione che ti appaiono quando stai scaricando un programma (dove la maggior parte delle persone clicca avanti e prosegue), in meno di cinque minuti, il server sa tutto di te; quello che ti piace ma anche quello che non ti piace, di cosa ti interessi e affianca la home di pubblicità che attirino la tua attenzione.
Fino a qualche tempo fa potevi anche aprire le mail e fare finta di leggerle.. ora neanche quello, perché appena le apri, alla persona che le ha inviate appare “visualizzato alle 17” e non hai scampo. Dovresti presentarti all’appuntamento (quale appuntamento?) che casualmente avevi dimenticato, oppure allo stesso tempo potrai gioire perché la tua migliore amica è stata presa per un master ad Oxford e non aveva altro modo di comunicartelo se non quello.
Esiste forma di controllo dei tuoi movimenti meno efficace di questa? Quante volte nei processi o nei dibattiti ricorre questa frase: “E’ stato denunciato per violazione del diritto alla privacy, accedendo alle informazioni personali del mio cliente senza consenso”. Ma la verità è che forse ci interessa più guardare alle vite altrui, che fermarci a riflettere un attimo sulla nostra. “Quanti amici ha?” – “Non mi dire anche lui conosce Cristina? Si sono taggati insieme” – “Ma sai che GianPaolo si è sposato a Bora Bora senza dirlo a nessuno?”. A volte senza nemmeno pensarci, ci beffeggiamo da soli. L’ esempio classico è: “Papà non mi chiamare quando sono a lezione”, e subito dopo appare la tua registrazione su facebook che ti permette di rendere noto al mondo dove ti trovi “Shopping rilassante a Via del Corso” e rimpiangi l’abbonamento al cellulare che ti lascia accedere ad internet (con la massima connessione per giunta!). E non è questione di cattiveria o malizia, ma la curiosità si sa, è la madre di tutti i problemi.
Siamo attanagliati dall’esigenza di sapere e conoscere ma allo stesso tempo, di incamerare e non lasciare nessuna fuga di notizie e con la totale discrezione, censiamo tutto con una password che per il 90% dei casi, riporta il nome del cane o del gatto, del marito o di una data per noi importante, perché sia mai che ce la dimentichiamo. Come tutte le cose però, queste forme di tecnologia hanno i pro e i contro. Rappresentano una forma di tutela personale e di chiusura sociale allo stesso tempo e di dipendenza dalla mia individualità (privacy= quello che è mio è mio, quello che è tuo è tuo), perché sono io che scelgo dove, come, quando e con chi condividere le mie cose.
Ma Facebook non ci permette solo di condividere, ma anche di non condividere (non esiste un tasto unlike purtroppo, ma sono certa che con tutte la lamentele Marc Zuckerberg ci stia pensando sopra), semplicemente commentando il nostro dissenso, oppure tacendo e ignorando proprio l’argomento che non ci piace, per chi ritiene che il silenzio sia la migliore delle risposte.
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