La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Désirs et Volupté, in mostra a Roma dal prossimo febbraio

Scritto da – 15 Novembre 2013 – 16:323 commenti

Parigi. La mostra ospitata in questi giorni al Musée Jacquemart-André (158 boulevard Hausmann, 75008) e che dal 15 febbraio al 5 giugno sarà possibile visitare anche al Chiostro del Bramante a Roma, offre esattamente quello che promette: Désirs et Volupté, desideri e voluttà visti attaverso l’occhio nostalgico di una generazione che si vedeva trascinata verso il declino di fine secolo e che trovava conforto nelle visioni lussuose e statiche dell’antichità sospesa, del tardo impero e del medioevo leggendario. Donne sonnolente, gioielli e mari antichi, i ricordi impossibili di un gruppo – quella dei preraffaelliti – e di un luogo, l’Inghilterra vittoriana. Godward, Alma-Tadema, Rossetti e gli altri spiano l’intimità trascurata dalla storia, indagano gli sguardi sereni che passano attraverso le tende sottili e purpuree, caricano il pennello dell’oro dei gioielli e spesso, sullo sfondo, fanno brillare un mare che sa di miti e di ritorni insperati, di amori non ancora condannati. I sentimenti sono delicati e ovattati, lascivi senza violenza, i desideri non ancora esauditi, ma come fermati un momento prima, quando si intravede il sorriso che ci dirà di sì ma che ancora tace.

Le ricostruzioni storiche sono sognate ma precise, i volti tipicamente britannici delle eroine greche sono annoiati, accomodanti, come se si scusassero, a volte, di vivere in quel riquadro irreale e perfetto. Le vite degli artisti sembrano felici, da quanto si evince dalle biografie scritte sui muri vicino ai quadri. Mariti affettuosi, padri di famiglia, con possibilità di viaggi e riconoscimenti e apparentemente senza grandi traumi. Solo in Dante Gabriele Rossetti (1828 – 1882), fondatore riconosciuto della confraternita ufficialmente nata nel 1848, con le sue donne dai capelli rossi e dallo sguardo vacuo, traspare il ricordo angoscioso della moglie Elizabeth suicidatasi con un’overdose di laudanum l’anno dopo la nascita del loro bambino morto, e si intravede, in quella sua delicata ossessione, il fantasma della sua fragilità artistica.

La mostra – rinomati capolavori raccolti negli ultimi quarant’anni dall’imprenditore messicano Juan Antonio Pèrez Simon  –   e disposta in otto sale dalle pareti color pastello e dalla moquette leopardata, rende giustizia ad una fuga dalla realtà inseguita da molti ma raggiunta, in fondo, da pochi oltre ai pittori di questo tramonto di XIX secolo. Con le pennellate svolazzanti comuni ai fratelli Impressionisti ma più decise a fissare l’immagine, i Preraffaelliti – il cui nome si deve alla supposta purezza e staticità dell’arte, e in particolare di quella italiana, prima di Raffaello – donano all’occhio e all’animo più che la pace: un autentico sollievo dall’orrore banale e ripetitivo della vita che non può essere sogno.

Nel bel mezzo di un sogno, infatti, le rose dell’imperatore Eliogabalo nella grande tela omonima firmata da Laurence Alma-Tadema (1836 – 1912) lasciano cadere i loro petali sulle concubine fino a soffocarle. Vediamo, fra il rosa spumeggiante dei petali, spuntare un sorriso, una mano, e quasi sembra che ci si rotolino contente, e contenti sono anche i commensali dell’imperatore, che alzano le coppe divertiti e commentando fra loro la scena curiosa. Sanno o non sanno che le concubine moriranno? E le concubine, quand’è che sentiranno l’aria svanire? Non importa, la tragedia è mascherata: il marmo splende e il vento della terrazza solleva appena una tenda bianca sulla sinistra, vicino ad una flautista dai capelli biondi. Ci saranno grida e lacrime, ma non adesso, non ancora: rimarrà un’angoscia ad invadere il dipinto, ma senza venire, di fatto, rappresentata.

Immortalare l’attesa, anche quella inconsapevole – come quella della regina Ginevra che, nel quadro di John M. Sturdwick (1849 – 1937) Il tempo di una volta, cerca insieme alle sue ancelle il modo per ammazzare il tempo molto prima dell’arrivo di Lancillotto – è anche un voler preservare lo spettatore, ma anche e soprattutto l’artista stesso, dall’inevitabile declino dell’esistenza. Le donne non invecchiano, rimangono fresche e rosee – anche le femmes fatales di William Waterhouse (1849 – 1917) dai visi spigolosi e dagli occhi fiammeggianti, anche mentre meditano su un omicidio e tengono in mano sfere di cristallo o boccette di veleno: il tempo non può passare e anche quello che ci si aspetta che accada, in sostanza, non deve accadere.

L’ansia della fine del secolo, della fine di un mondo, era un sentimento profondamente radicato nella tarda epoca vittoriana: questo voler catturare il passato e avvolgercisi, per non dire nascondersi, nel terrore e nella certezza che a breve qualcosa di terribile sarebbe accaduto. E di fatto accadde: sia Godward che Strudwick, come anche Waterhouse fecero in tempo a vedere le granate della Prima Guerra Mondiale cadere sulle réveries, sui dolce far niente, e mandare in pezzi i marmi immobili e i pomeriggi oziosi. Era accaduto: non c’era più niente da aspettare.  L’immobile serenità dei dipinti, però, ci offre, come doveva offrire a coloro che li dipingevano, una tregua: cadiamo nella trappola, e ci avvolgiamo volentieri nel ricco velo dell’illusione.

Soffermiamoci brevemente sul dipinto di Frederic Leighton (1830 – 1896) che fa da locandina alla mostra: la tela è sottile e stretta come un sudario, e il corpo bianco dritto della donna raffigurata vi entra perfettamente come in un sarcofago. Niente, però, suggerisce la morte, perché la donna è in realtà una ninfa, Crenaia (Crenaia, la ninfa del fiume Dargle è il titolo del quadro, circa 1880) e non può morire e anche se tiene gli occhi chiusi li indoviniamo sorridenti, come incurvate sono anche le labbra. Una lunga veste la divide, scopre una gamba e nasconde l’altra, fa da ala ad una spalla e lascia il suo paio nudo e rotondo. Ha le mani giunte premute sul petto, appena sotto al mento: le servono a tener stretto il suo segreto, e a noi poco importa di che segreto si tratti, perché sembra averle donato la pace. Alle sue spalle si intravede una cascata, e da quella stessa sembra che si sia appena levata, come da un letto dopo una notte d’amore. Non è ancora giorno, e lei ancora stringe al cuore il desiderio. Si coricherà di nuovo, lì dove la cascata si bagna nel torrente, ma noi non lo vedremo.

 

Maria Sofia Mormile

 

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