“Senza paracadute”, il diario tragicomico di Antonio Loconte: Il giornalismo è ancora di moda, i giornalisti un po’ meno
Non sono uno studente, ma lo sono stato. E’ vero, per un periodo brevissimo. Dicono, però, che la qualifica resta come nel caso di onorevoli, direttori generali, presidenti e professori. Non ricordo neppure se ho fatto la mia ufficiale “rinuncia agli studi” nel nome del sogno, poi infranto, di essere un giornalista. Un sogno infranto da un licenziamento senza una causa giusta, in generale senza una causa che nulla avesse a che fare con le ragioni della crisi. Fareste mai un lavoro senza avere alcuna raccomandazione, con la certezza di essere sottopagati, lavorando anche 16 ore al giorno, senza uno straccio di contratto, ma soprattutto con la consapevolezza di non avere nessuno a guardarvi le spalle? Solo uno stupido o un inguaribile sognatore si incamminerebbe in una strada senza uscita, certo dell’incubo che l’aspetta. Tanti dei giornalisti precari – sono il 55% di chi ha il tesserino, non contando chi scrive per hobby, i dopolavoristi e gli accattoni – quella strada continuano a consumarla su e giù da anni, con la speranza che qualcosa cambi, magari che venga approvato l’equo compenso anche senza il benestare del ministro Elsa Fornero, secondo la quale una paghetta equa ai cronisti del marciapiede non serve. Siamo arrivati al punto in cui la voglia di dare voce agli altri, quella cambiare il mondo, l’X factor, non sono più sufficienti. E’ arrivato il tempo di togliere la testa dalla sabbia, evitando di continuare ad illudere tanti studenti stupidi e sognatori, quelli che, sprovvisti di conoscenze e raccomandazioni investono 8-10-12 mila euro per un master biennale in giornalismo. O meglio, fateli pure, ma non aspettatevi il lavoro sicuro. Non ce l’hanno nemmeno molti i giornalisti professionisti da decenni. Dove vai a lavorare dopo il master? Ci sono realmente redazioni disposte ad assumerti con un contratto vero? Quanto dura la gavetta? Va bene la vocazione, ma lo sfruttamento no. Tre, quattro euro a pezzo – meno della metà di quanto prende una colf a ora – non sono dignitosi, non bastano. Vale ancora la pena fare il giornalista? Sì, nonostante tutto, ma bisogna essere disposti a essere barracuda non sardine, quelle se le mangiano gli squali dell’editoria.
Dall’idea che un giornalista debba vestire i panni del metalmeccanico, dell’insegnante o dell’infermiere precario, scendendo in piazza a protestare, a dire che così proprio non va è nata l’idea di scrivere un libro: “Senza paracadute, diario tragicomico di un giornalista precario”, Adda editore, con la prefazione di Antonio Caprarica e i contributi, tra gli altri, di Alessandro Banfi, Enzo Iacopino, Carmelo Sardo, Giorgio Santelli, Massimo Alberizzi, Vincenzo Iurillo, Stefano Tesi. Garantiti e precari (freelance se preferite) insieme, a metterci la faccia, raccontando pensieri e storie. Un libro scritto con un ritmo incalzante per catapultare il lettore nelle giornate tipo (non un solo) del giornalista di strada, quello che deve sbrigarsela da solo sempre e comunque. Una scrittura ironica, incisiva, per raccontare una generazione allo sbando, sull’orlo di una crisi di nervi e di ideali e con un futuro chiaro come un cerino acceso allo stadio Meazza di Milano in una giornata di nebbia. Si ride, si piange, ma soprattutto si riflette. Non è un romanzo. La trama la costruisce il lettore incastonando i pezzi di una vita finita ai margini dopo essere stata sotto i riflettori. Senza Paracadute, è soprattutto la voglia di riscatto, il tentativo di mettere insieme i precari colpiti dal virus della pigrizia e raccontare agli altri: impiegati, casalinghe, studenti, operai e chiunque altro non abbia il pallino della scrittura-occasionale, lo spaccato di un mondo affascinante, che continua a interessare, al centro di una rivoluzione irreversibile. La verità è che siamo narcisi, quindi, nella società dell’apparire dell’avere piuttosto che dell’essere, il giornalismo sarà sempre una moda. Il rischio è quello di non adeguarlo ai cambiamenti. Chi sogna di fare questo mestiere (non professione, perché si tratta di un settore dell’artigianato) deve avere le stesse opportunità, che sia figlio di papà o uno stupido sognatore.
Antonio Loconte
[…] Non sono uno studente, ma lo sono stato. E’ vero, per un periodo brevissimo. Dicono, però, che la qualifica resta come nel caso di onorevoli, direttori generali, presidenti e professori. Non ricordo neppure se ho fatto la mia ufficiale “rinuncia agli studi” nel nome del sogno, poi infranto, di essere un giornalista. Un sogno infranto da un licenziamento senza una causa giusta, in generale senza una causa che nulla avesse a che fare con le ragioni della crisi. Fareste mai un lavoro senza avere alcuna raccomandazione, con la certezza di. […] Leggi l'articolo completo su Orizzonte Universitario […]
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