La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Cinema: la cicogna ai tempi della crisi. Fenomenologia di una (ri)nascita sospesa

Scritto da – 11 Gennaio 2013 – 18:0412 commenti

Dopo la metafora del fatale “risveglio” da uno stato di sonno comatoso (“Bella addormentata” di Marco Bellocchio) o da un sogno patologico (“Reality” di Matteo Garrone) il cinema italiano continua a proporre esortazioni alla ri-presa (anche di sola coscienza) dalla crisi, sino ad abbracciare risvolti socio-antropologici, tutte accomunate dalla sospensione di un epilogo, quasi scaramanticamente affidate più alla benevolenza della sorte, che alla percezione dello spettatore!  “Il comandante e la cicogna”, la nuova surreale commedia del regista Silvio Soldini, si ispira romanticamente al più popolare simbolo della nascita, auspicio di felicità e buona speranza per il futuro, per esprimere il suo sguardo amaro e provocatoriamente ironico sull’Italia contemporanea, confidando appunto nell’eterna missione della cicogna.  La cicogna Agostina sorvola l’Italia, la scruta dall’alto (come enfatizzato dall’uso del mascherino a iride a marcare il suo punto di vista) vi si sofferma per poco e poi prosegue verso la Svizzera; in Italia non depone uova, non costruisce un nido. Prima di pensare alla possibilità di generazioni future, mette al vaglio piuttosto le ultime. Assodato il fallimento dei nati in tempi più remoti (quegli adulti disillusi e ciarlatani, che si dimenano tra un disastro e l’altro, cercando di rimediare ai primi creandosene di nuovi) predilige avvicinare giovanissimi e promettenti esemplari come Elia, che nel suo essere un nerd in opposizione alle retrograde istituzioni scolastiche, è già la prefigurazione di un ulteriore cervello in fuga da un paese che svalorizza l’arte, l’istruzione, la storia, l’onestà e al massimo paralizza siffatti valori in monumenti alla memoria, quali sono le statue parlanti dei padri della patria!

L’idea di una generazione futuribile, la cui nascita non è garantita, è data emblematicamente dalla finta e casuale coppia di coniugi, Leo (Valerio Mastandrea) e Diana (Alba Rohrwacher), che a fondamento del loro falso matrimonio (inconsapevole truffa immobiliare da un lato, escamotage per evitare una parcella legale dall’altro) inventano di aspettare un bambino e su questa stessa frivola, per quanto dolce, menzogna gettano le basi del loro reale innamoramento.  Il film termina, infatti, con i due a letto (dopo un probabile concepimento?) lasciando immaginare che un loro fantomatico figlio potrebbe dunque nascere in futuro!

Similarmente inconsistenti, gli aforismi di Amanzio (Giuseppe Battiston) che nel voler inneggiare ad una informale educazione culturale ed etica, finiscono per rivelarsi appunto effimeri, inevitabilmente inutili, saturi di moralismo anacronistico (proprio come le citazioni pubblicate sui social network, autoreferenziali e svuotate della loro funzione più costruttiva) perché pur attinenti, clamorosamente sproporzionate ai singoli contesti. Amanzio rappresenta dunque la precarietà culturale del paese, lasciando invece ai comprimari di incarnare a tutti i livelli quella professionale. Vive sommerso da vocabolari consultabili di volta in volta in base all’interlocutore, non studia una nuova lingua, ma impara mnemonicamente frasi standard e massime. Le stesse frasi che ripetute da Elia suonano perfino ridicole, considerato lo squilibrio tra la sua età e l’elevato contenuto espresso. Ecco allora che la cicogna torna per rinvigorire i germogli di quest’ultima generazione, quale miglior anello di raccordo per le successive.

Per questo la conciliazione risolutiva del film è tutta nell’immagine di Elia addormentato in una specie di mangiatoia (propiziatoria) della natività abbracciato ad Agostina, dopo averla inseguita fino in Svizzera proprio per strapparle una seconda nascita, almeno lui che prematuramente ne sente la necessità (per sua sorella Maddalena, invece, pare sia ormai troppo tardi, perché già travolta, come gli adulti, nel circolo vizioso della reiterazione degli errori-orrori). Il film dipinge dunque, una critica dolciastra al malcostume attuale, edulcorata dal surrealismo della trama, ma in effetti senza alcuna vera prospettiva da seguire, che non sia altro che quella più superficiale, ma imprescindibile, di non abdicare mai ad un  tenace e lucido sorriso sulla vita.

Ancor più esplicitamente concentrato sulle ardue e complesse predisposizioni a (pro)creare una vita nuova e migliore, “Tutti i santi giorni”. L’apprezzato regista Paolo Virzì consolida il suo personale panorama di successi, ma soprattutto trae fuori direttamente da uno di questi, “Tutta la vita davanti”- memorabile fotografia del precariato nel bel paese – il côté sentimentale dei suoi personaggi. Guido (Luca Marinelli) e Antonia (la cantautrice Thony) potrebbero considerarsi trasversalmente come gli stessi Marta (Isabella Ragonese) e Roberto (Edoardo Gabriellini) i protagonisti, appunto, del film del 2008 (vivono la stessa periferia romana, non disdegnano di interagire con gli stessi romanacci cafoni, pur essendo culturalmente lontani anni luce da questi) per i quali gli sceneggiatori hanno voluto scrivere un autentico sliding doors, anche mescolando i loro caratteri.

Guido differentemente da Roberto, non accetta appaganti ingaggi professionali all’estero e, probabilmente per amore di Antonia, spreca competenze e passione per gli studi lavorando come portiere di notte in un grand hotel, convincendosi che tale impiego e il guadagno che ne ricava siano confacenti alle sue peculiarità, raccontandosi che in fondo è anche allietato dall’ascolto di musica e dalla lettura indisturbata nella hall deserta (oro se paragonato al call center in cui ripiegava Marta!) Per questa scelta opposta (che aveva portato Marta e Roberto alla inesorabile rottura) Guido vanta ormai 6 anni di convivenza con Antonia ed insieme progettano la nascita di un figlio. Qui inizia la storia sul grande schermo, al limite polisemantico del titolo del romanzo “La generazione” di Simone Lenzi, da cui il film è tratto: “generazione” intesa da un lato come insieme di coetanei di una stessa epoca, dall’altro come “generare”, dare la vita.

Le difficoltà di concepire un figlio, di far progredire la tradizionale costruzione di relazione, dalla coppia alla famiglia, riporta a riflettere sulla nozione di “fertilità,” nella sua accezione più ampia, dal ciclo di rigenerazione della terra coltivabile ad una società in evoluzione, agli sviluppi che seguono alla semina, al lavoro, all’investimento di risorse. Virzì coglie la vicenda nel mezzo del problema, lasciando dare per scontata la solidità del legame dei due protagonisti: si amano indubitabilmente. Quale requisito migliore per l’arrivo di un figlio? Eppure il loro rapporto risulta biologicamente sterile. L’analisi della sterilità pare sdoppiarsi su due piani, da un lato quello professionale, la mancata “messa a frutto” di studi e talento (se lui rifiuta impieghi, lei è una originale cantautrice impiegata però in un autonoleggio), entrambi lavorano in non- luoghi di passaggio, in cui i confort indispensabili di dimora e trasporti sono in affitto temporaneo, traslazioni indicative non tanto di una instabilità economica (ci sono 2 stipendi, magari modesti, ma fissi) ma di una instabilità esistenziale dietro l’apparente serenità di facciata; dall’altro il piano familiare, la costruzione del nucleo base genitori-figli. Proprio perché una bella coppia agli occhi altrui, appare inspiegabile cosa ritardi la messa al mondo di un figlio (sproporzionato il raffronto con i vicini di casa ignoranti e volgari, che vantano ormai ben 3 bambini, pur non avendo alcuna propensione alla famiglia).

La riflessione potrebbe estendersi ad ulteriori tipologie di sterilità biologiche, quelle omosessuali, che vorrebbero fosse loro riconosciuto il diritto genitoriale, ricorrendo alle stesse possibilità artificiali, in quanto indifferentemente carichi di amore. La coppia è forse una famiglia insufficiente a se stessa? Può esistere immutabilmente in questa forma cellulare? Probabilmente se fosse scevra dai retaggi culturali e dagli egoismi, prima ancora che dai limiti biologici e psicologici, potrebbe esserlo! Le famiglie dei due protagonisti, pur differenti nel ceto, ma tradizionali nella composizione, rappresentano le prime zavorre, concausa della debolezza vitale dei figli, perché avvallano i loro errori, nel caso di Guido, o vi inveiscono contro nel caso di Antonia, che pressata dai pregiudizi di essere una trent’enne non ancora madre, sprovvista di certezze, compromette la relazione con Guido, il quale abbandonato, perde simultaneamente l’equilibrio acquisito proprio nella loro convivenza. Cos’è che manca  e sfascia la coppia che, dinanzi ad un medico dichiara di non essersi mai preoccupata della contraccezione, ma paradossalmente entra in crisi nel momento in cui, nonostante le cure, il concepimento non avviene? E con ciò torniamo alla “semina”.

Il film non si conclude col matrimonio dei due, ma con un salto a ritroso nel tempo fino al giorno in cui Guido e Antonia si sono conosciuti. L’una suona in un pub nel totale disinteresse di tutti i clienti, tranne uno, per l’appunto Guido, che trasandato e mezzo ubriaco confessa di tornare a riascoltarla ogni sera. Ecco che due necessità si incontrano e uniscono: scopriamo che lei  vuole mollare il suo attuale ragazzo e chiede a Guido ospitalità, mentre lui, che lascia facilmente intuire una scarsa vita sentimentale pregressa, non può che esaltarsi per quella tanto agognata compagnia. Se come recita l’adagio “si raccoglie ciò che si semina”, ospitalità e compagnia possono essere considerati i semi lanciati al caso, precari e infruttuosi? Forse che coltivarli ‘tutti i santi giorni’ non ha prodotto Amore, nuova ricchezza, se non è possibile materializzarla in un figlio?

Tuttavia la raffigurazione più destabilizzante della precarietà, che dalla cattiva congiuntura economica si insinua e scava sin nei sentimenti, fondamenta della famiglia-cellula della società, si nasconde nel film “Un giorno speciale” di Francesca Comencini. In uno dei dialoghi che riempiono la giornata di Gina e Marco in giro per Roma, l’uno aperto alle confidenze dell’altra, lei esprime la convinzione che la nascita di un figlio potrebbe rappresentare la risoluzione delle aspirazioni e delusioni di una vita piegata ai compromessi (l’incontro con un onorevole per lei aspirante attrice e l’impiego da autista-complice dello stesso politico per lui, prima disoccupato) perché essere genitori è l’impegno pieno per antonomasia e in assoluto, la più grande delle imprese e delle realizzazioni! Insomma se la propria vita non accenna a svoltare come voluto, allora magari si può facilmente, come da secoli, riversare alternativamente la propria volontà sul surrogato congiunto di un figlio, la seconda  nascita di una stessa vita (come non sottolineare a proposito le sequenze introduttive, la preparazione meticolosa, quasi sacra, di abiti e trucco che la madre di Gina predispone per la figlia, dichiaratamente unico orgoglio e investimento per l’intera famiglia!).  Le vite dei due ragazzi, vittime del proprio tempo, corrotto e disilluso, sono emblematiche del ripiegamento e del soffocamento apparentemente ineluttabile, che in ultima istanza riconoscono, ma che subiscono. Anche in questo caso il finale resta aperto e incerto: non è intuibile se lo scatto di ira che muove Marco a lasciare il suo lavoro da raccomandato riuscirà a trascinare nel cambiamento anche Gina; quasi a presagire l’improbabilità che il loro fugace innamoramento possa davvero condurre ad una reale via di uscita.

 

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