Picasso e lo strazio della visione
La prima volta che le opere di Picasso sono state a Milano, nel 1953, l’intera comunità artistica ha subito una scossa. La ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, che aveva duramente colpito Milano con i bombardamenti dell’agosto 1943, aveva incendiato il mondo della cultura di nuovi fermenti, nel contesto dell’illuminata politica culturale di Fernanda Wittgens, allora Sovrintendente di Brera: riaprivano Brera, il Poldi Pezzoli, inaugurava il PAC. Si susseguivano a Palazzo Reale mostre dedicate al grande pubblico, ma con un intenso studio scientifico alle spalle: Caravaggio (1951), Van Gogh (1953), Picasso, appunto.
La mostra, curata da Franco Russoli e promossa dall’Ente Manifestazioni Milanesi, aveva coinvolto lo stesso Picasso nella selezione e nell’allestimento delle opere. L’emozione suscitata da una fotografia della Sala delle Cariatidi bombardata e l’intenso carteggio con il pittore Attilio Rossi lo convinsero ad inviare a Milano, a mostra iniziata, Guernica, per esporla in quella sala. Il manifesto contro ogni violenza veniva mostrato in una ferita aperta nel cuore di Milano.
Per ricordare quella mostra eccezionale, la mostra di Anne Baldassari inizia con una sezione dedicata alle fotografie dell’esposizione, ai carteggi e alla stampa dell’epoca. Nella Sala delle Cariatidi una proiezione delle fotografie scattate da Dora Maar documenta l’elaborazione di Guernica. Poco più in là il nitore neoclassico delle sale accoglie un allestimento pulito che dà pieno risalto alle fasi stilistiche della carriera artistica di Picasso.
Figlio di un maestro di disegno, Pablo Picasso (1881-1973) possiede a dodici anni la capacità di dipingere come Raffaello. Ragazzo prodigio alla scuola d’arte di Barcellona, a diciannove anni si trasferisce a Montmartre e inizia a dipingere le figure degli emarginati della società, prima con gamme cromatiche fredde (è il periodo blu, 1901-1904), poi ritraendo con toni più caldi l’amara realtà delle figure dei poveri, saltimbanchi, personaggi del circo. Queste prime fasi in mostra sono poco documentate, anche se compensa la presenza commovente di un capolavoro come Celestina (donna con un occhio solo) del 1904 e I due fratelli, del 1906.
Picasso non è soddisfatto, e comincia a studiare l’arte primitiva che aveva rivelato una nuova dimensione anche a Matisse e Gauguin. La questione è di rappresentare qualcosa con i suoi elementi essenziali. Gli studi per Les demoiselles d’Avignon del 1907 nascono dall’osservazione delle maschere africane.
Picasso si spinge oltre e concepisce la simultaneità della visione. Ma gli occhi con cui guarda sono quelli della mente: dipinge ciò che sa, non ciò che vede. E’ l’intuizione geniale che prende il nome di cubismo analitico. Un Uomo con chitarra (1911) diventa corde, naso, manico, mano, note. Come nella pittura egizia, Picasso rappresenta i particolari significativi dal punto di vista più chiaro alla memoria.
Un passo più in là e la realtà entra nell’opera d’arte. Nasce il collage, lo spartito non è dipinto ma incollato: è il cubismo sintetico della Bottiglia di Bass, 1914: le tele diventano, fisicamente, i tavoli dei caffè parigini, nature morte viventi. La ricerca tecnica è incessante, ma non è mai puro sperimentalismo: <<Io non cerco, trovo>>.
Si arriva così al ritorno all’ordine e il classicismo monumentale tra il 1915 e il 1924: il Ritratto di Olga in poltrona del 1918 è la raffinatezza dell’arte rinascimentale contraddetta dall’incompiutezza. Si susseguono gli stili, le ispirazioni, le muse: le Figure sulla spiaggia degli anni 30 e il Nudo in un giardino del 1934 hanno le morbide curve di Marie Therese e l’atmosfera onirica del surrealismo.
Tra il ‘35 e il ‘51 l’arte di Picasso è sconvolta dalla guerra civile spagnola: i ritratti di supplici, donne che piangono, teschi di capre dai toni mortiferi riecheggiano un pianto universale. La Supplice del 1937, dilaniata e scomposta dal dolore, e la sala dedicata alle opere grafiche rivelano inifiniti punti in comune con l’arte di Goya e l’espressione umanissima della tragedia della guerra.
Insomma, la mostra è ricchissima e porta con sé i pregi e i difetti dell’esporre un nucleo collezionistico compatto, quello del museo parigino: a volte la pretesa di completezza è compromessa da alcune assenze, soprattutto per i periodi giovanili e la produzione ceramica.
Il ricordo delle grandi mostre a Palazzo Reale degli anni Cinquanta fa un po’ rimpiangere quei tempi culturalmente vivaci, in cui le mostre erano il frutto di una ricerca e di una precisa politica culturale e non pacchetti di opere adattati agli spazi in affitto, come a volte si rivelano le sale di Palazzo Reale. Per fortuna, Picasso ci ricompensa.
[…] La prima volta che le opere di Picasso sono state a Milano, nel 1953, l’intera comunità artistica ha subito una scossa. La ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, che aveva duramente colpito Milano con i bombardamenti dell’agosto 1943, aveva incendiato il mondo della cultura di nuovi fermenti, nel contesto dell’illuminata politica culturale di Fernanda Wittgens, allora Sovrintendente di Brera: riaprivano Brera, il Poldi Pezzoli, inaugurava il PAC. Si susseguivano a Palazzo Reale mostre dedicate al grande pubblico, ma con un. […] Leggi l'articolo completo su Orizzonte Universitario […]