La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Se questo è un uomo. Il duplice scopo del ‘Campo di Annientamento’

Scritto da – 27 Maggio 2011 – 16:32Nessun commento
Ci sono libri che fanno volare al di là dei confini, del tempo e della storia. Libri che ci chiamano sussurrando, come profeti lontani, ci chiedono di essere sfogliati, amati per qualche giorno e, per ricompensa, ci offrono le loro pagine per volare in qualche landa remota, chissà dove, non importa.
Non saprei spiegare come sia avvenuto il mio incontro con Primo Levi, sinceramente. Ho avvertito l’impulso di addentrarmi, nella sua storia, forse per la stessa ragione per cui si mangia quando si ha fame.  È un bisogno, viscerale e misterioso (curiosa coincidenza che io abbia 24 anni come Levi quando venne deportato, e che non lo avessi mai letto prima).
Ci hanno inculcato, fin dalla scuola, un devoto rispetto, ammantato di ingombrante silenzio sull’Olocausto. Decine di film, proiezioni di documentari, testimonianze di sopravvissuti, temi, libri, giornate della memoria. Eppure, siamo sicuri di aver anche lontanamente intuito cos’è successo? Io posso affermare, in tutta franchezza di no. È impossibile. La nostra esperienza quotidiana non lo permette.
Giorni passati nel fango, a temperature inferiori allo zero, in camicia e scarpe con la suola di legno, a trasportare traversine di ferro da sessanta chili, con un pezzo di pane e una gamella di brodo acquoso nello stomaco. Contare i minuti che separano la colazione dal pranzo, e dal pranzo alla branda, con la tristezza di chi non ha altro scopo nella vita che arrivare alla sera, e se poi la notte sarà trascorsa in un continuo viavai alla latrina, a causa dell’acqua nelle interiora, non importa, perché almeno non si lavora. L’utopia di un giorno di sole, l’arrivo insperato della Primavera, perché lavorare d’Inverno significa che: “nel corso di questi mesi, dall’ottobre all’aprile, su dieci di noi, sette morranno. Chi non morrà, soffrirà minuto per minuto, per ogni giorno, per tutti i  giorni.” Comprendere, e che si accetti o meno non fa differenza, che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. Le stesse leggi umane, in una situazione del genere vengono a mancare. I comportamenti che tutti noi siamo abituati ad attuare, nel vivere civile, lì perdono di significato. Il decadimento morale è completo. Nessuno ha più la forza di essere uomo, e di conservarne la dignità.
“Il Lager  è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà.”

Quando sembra di aver toccato il punto più basso della moralità, forse bisognerebbe ricordarsi, e a farlo si proverebbero dei brividi umanissimi, di coloro che non moltissimi anni fa hanno trovato la forza di raccogliersi come formiche, spogliate della loro persona, quindi ben al di là dei vestiti, e guardare la morte e le atrocità in faccia e scegliere consapevolmente di continuare a vivere. Nell’abisso più profondo dove l’uomo è sceso, nell’Inferno, che per qualche anno è esistito davvero, mica nei sermoni dei preti, è rimasta accesa una minuscola fiamma di vita e di speranza.  Ora che sembra che tutto abbia perduto di senso, e che la nave su cui ci troviamo sia desinata ad infrangersi presto sulle rocce della perdizione morale, dell’inciviltà, del trionfo della bestialità e del incontrastato regresso all’uomo primitivo, cui unica legge era la sopravvivenza e la soddisfazione delle pulsioni della carne. Ora ha realmente senso chiedersi se, più che accusare il prossimo, si dovrebbe puntare il dito su se stessi e rinfacciarsi, anche duramente, dato che qualcuno ce l’ha fatta, nel suo piccolo mondo di capelli rasati e bottoni cuciti col fil di ferro, a far crollare un sistema inumano, organizzato da altri uomini, che forse potremmo farcela pure noi.
Dice Levi, quando il campo stava per essere abbandonato dalle SS e liberato dai Russi: “Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza.”
Si smette di cercare Dio, scema la voglia di credere in qualcosa di superiore e di altro da noi, che in qualche modo vigili sulle buffonate che combiniamo quaggiù. Ma prima di rinnegare Dio, il primo passo verso l’abisso è fuggire dai principi e dai valori, dalle caratteristiche peculiari dell’uomo, in quanto essere dotato di intelletto, che sa pensare. Ricordo anche le parole di Adorno, che asseriva che dopo Auschwitz non si potesse fare più Poesia. Levi centralizza quella esperienza, per lui si poteva fare Poesia solo intorno ad Auschwitz, come se fosse l’unica vera strada maestra per l’Uomo, quando non sa dove andare.

Ci sono libri che fanno volare al di là dei confini, del tempo e della storia. Libri che ci chiamano sussurrando, come profeti lontani, ci chiedono di essere sfogliati, amati per qualche giorno e, per ricompensa, ci offrono le loro pagine per volare in qualche landa remota, chissà dove, non importa. Non saprei spiegare come sia avvenuto il mio incontro con Primo Levi, sinceramente. Ho avvertito l’impulso di addentrarmi, nella sua storia, forse per la stessa ragione per cui si mangia quando si ha fame.  È un bisogno, viscerale e misterioso (curiosa coincidenza che io abbia 24 anni come Levi quando venne deportato, e che non lo avessi mai letto prima). Ci hanno inculcato, fin dalla scuola, un devoto rispetto, ammantato di ingombrante silenzio sull’Olocausto. Decine di film, proiezioni di documentari, testimonianze di sopravvissuti, temi, libri, giornate della memoria. Eppure, siamo sicuri di aver anche lontanamente intuito cos’è successo? Io posso affermare, in tutta franchezza di no. È impossibile. La nostra esperienza quotidiana non lo permette.Giorni passati nel fango, a temperature inferiori allo zero, in camicia e scarpe con la suola di legno, a trasportare traversine di ferro da sessanta chili, con un pezzo di pane e una gamella di brodo acquoso nello stomaco. Contare i minuti che separano la colazione dal pranzo, e dal pranzo alla branda, con la tristezza di chi non ha altro scopo nella vita che arrivare alla sera, e se poi la notte sarà trascorsa in un continuo viavai alla latrina, a causa dell’acqua nelle interiora, non importa, perché almeno non si lavora. L’utopia di un giorno di sole, l’arrivo insperato della Primavera, perché lavorare d’Inverno significa che: “nel corso di questi mesi, dall’ottobre all’aprile, su dieci di noi, sette morranno. Chi non morrà, soffrirà minuto per minuto, per ogni giorno, per tutti i  giorni.” Comprendere, e che si accetti o meno non fa differenza, che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. Le stesse leggi umane, in una situazione del genere vengono a mancare. I comportamenti che tutti noi siamo abituati ad attuare, nel vivere civile, lì perdono di significato. Il decadimento morale è completo. Nessuno ha più la forza di essere uomo, e di conservarne la dignità. “Il Lager  è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà.”Quando sembra di aver toccato il punto più basso della moralità, forse bisognerebbe ricordarsi, e a farlo si proverebbero dei brividi umanissimi, di coloro che non moltissimi anni fa hanno trovato la forza di raccogliersi come formiche, spogliate della loro persona, quindi ben al di là dei vestiti, e guardare la morte e le atrocità in faccia e scegliere consapevolmente di continuare a vivere. Nell’abisso più profondo dove l’uomo è sceso, nell’Inferno, che per qualche anno è esistito davvero, mica nei sermoni dei preti, è rimasta accesa una minuscola fiamma di vita e di speranza.  Ora che sembra che tutto abbia perduto di senso, e che la nave su cui ci troviamo sia desinata ad infrangersi presto sulle rocce della perdizione morale, dell’inciviltà, del trionfo della bestialità e del incontrastato regresso all’uomo primitivo, cui unica legge era la sopravvivenza e la soddisfazione delle pulsioni della carne. Ora ha realmente senso chiedersi se, più che accusare il prossimo, si dovrebbe puntare il dito su se stessi e rinfacciarsi, anche duramente, dato che qualcuno ce l’ha fatta, nel suo piccolo mondo di capelli rasati e bottoni cuciti col fil di ferro, a far crollare un sistema inumano, organizzato da altri uomini, che forse potremmo farcela pure noi. Dice Levi, quando il campo stava per essere abbandonato dalle SS e liberato dai Russi: “Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza.”Si smette di cercare Dio, scema la voglia di credere in qualcosa di superiore e di altro da noi, che in qualche modo vigili sulle buffonate che combiniamo quaggiù. Ma prima di rinnegare Dio, il primo passo verso l’abisso è fuggire dai principi e dai valori, dalle caratteristiche peculiari dell’uomo, in quanto essere dotato di intelletto, che sa pensare. Ricordo anche le parole di Adorno, che asseriva che dopo Auschwitz non si potesse fare più Poesia. Levi centralizza quella esperienza, per lui si poteva fare Poesia solo intorno ad Auschwitz, come se fosse l’unica vera strada maestra per l’Uomo, quando non sa dove andare.

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