Bramantino, Milano rilancia il ruolo attivo delle istituzioni cittadine
Ultimamente le montagne sono andate da Maometto: appagata dal post- Salone, Milano è divenuta in pochi mesi sede di esperimenti culturali imprevisti. Macao, ha giocato con disinvoltura all’hype-squatting con quella smaliziata efficacia che gli sparuti centri sociali in città non hanno (dopo anni di lotte per la mera sopravvivenza), rinfocolando la brace di mobilitazione generata nel maggio arancio pisapiano dello scorso anno . Nel frattempo Papa Ratzinger, al minimo della propria popolarità (se mai l’ha avuta, ndr) mette a segno un colpo formidabile conquistando Milano per i giorni del VII Meeting delle Famiglie. Tra l’egida ambrosiana e quella di CL, era difficilmente prevedibile un simile atto di protagonismo nella diocesi più autonoma e atipica d’Italia.
In questa Milano città aperta, i padroni di casa non sono rimasti a guardare, né ad aspettare. Conciliando necessità e virtù, è stata allestita una mostra “come se ne facevano una volta”. Per la prima volta dopo anni il Comune di Milano è tornato ad organizzare un evento culturale in totale autonomia, senza sponsor ingombranti e facendo solo affidamento sulle risorse dei propri uffici mostre. D’improvviso sono comparsi nelle pareti della metro e lungo i bar locandine con un rospo demoniaco, sconfitto ma vibrante, stagliato su un fondo bianco. Nessun titolo o spiegazione, quasi a suggerire ai Milanesi che si tratta di un evento per loro, qualcosa che appartiene ed è sottinteso alla loro memoria storica. Si apre così la mostra “Bramantino a Milano”, retrospettiva economica ma ricchissima su quello che è stato definito il più importante artista “autoctono” del rinascimento lombardo. Una mostra che punta sui gioielli di famiglia: essendo a Milano riunito il nucleo più consistente del corpus dell’artista, sono stati raccolti da varie sedi, pubbliche e private, autentici capolavori di Bartolomeo Suardi, dandosi appuntamento proprio nell’ombellico del bramantinismo, cioè al Castello Sforzesco, dove riposano manifesti turisticamente sottovalutati come l’affresco dell’Argo nella Sala del Tesoro, e i clamorosi Arazzi dei Mesi nella Sala della Balla.
Per chi già conosce Bartolomeo Suardi (chiamarlo Bramantino mi sembra in tutti i sensi diminutivo) è una gioia per gli occhi, gli incunaboli di quell’arte enigmatica e mutante sono tutti presenti: si parte dalla mitica incisione Prevedari, che riporta il disegno seminale di un Bramante da poco approdato a Milano, carta di tornaconto per il giovane artista bergamasco, in cerca di classicismo e monumentalità con cui esorcizzare i propri enigmi. Suardi si dimostra fin dall’immediato un iconografo irrequieto e centripeto, che incamera i riferimenti più disparati e apparentemente inconciliabili -le linee taglienti dell’officina ferrarese, lo sfumato vaporoso di Leonardo, la Roma post-Sisto IV di Signorelli e Melozzo- ripresentando le sfere intagliate in un prisma visivo razionale e misterioso, fulgido di citazioni colte e corrispondenze visionarie a tutt’oggi non totalmente decifrate. Ai turisti per caso segnaliamo tra i capisaldi imperdibili l’Adorazione del Bambino dell’Ambrosiana, il Noli me tangere delle Raccolte Civiche che fece impazzire Patti Smith, fino alla Madonna delle Torri (da cui è tratto il rospo/demonio del flyer), vero manifesto del classicismo desertificato e assolutistico captato nel viaggio a Roma (dove era approdato al seguito di Bramante, dopo un on the road con un altro visionario della zona, Gaudenzio Ferrari), finendo tra gli illustri candidati per le leggendarie Stanze Vaticane.
Dopo la Pentecoste di Somma Lombardo, dove si uniscono incisioni dai codici miniati con le riprese del cenacolo vinciano, saliamo le scale per contemplare la spettacolare sequenza degli Arazzi dei Mesi, commissionati nel primo decennio del cinquecento dall’allora governatore di Milano Gian Giacomo Trivulzio: tra segni zodiacali e allegorie prende vita il primo grande ciclo di arazzeria italiana, un’epopea corale di centinaia di personaggi colti nei lavori stagionali, a metà tra il kolossal peplum e un maestoso musical pagano. Ma non finisce qui: nell’ultima, incavata piccola sala, un video mostra l’unica opera impossibile da trasportare, creata per lo stesso committente: il Mausoleo Trivulzio, la sola opera architettonica giunta a noi del maestro (e conclusa dopo la sua morte), essenziale e pura, egocentrica rispetto alla chiesa ambrosiana dei Santi Nazaro e Celso che anticipa e stravolge.
Sarà questo il salmo prediletto di molti architetti contemporanei come Aldo Rossi, che lo elesse a sua cellula creativa primordiale, così come gli sfondi pittorici, colmi di arcate inspiegabili, cupole e altri isterici nipotini illegittimi del Pantheon romano, saranno modello riconosciuto dalle maggiori tendenze nate nel clima post-avanguardistico italico, dal Novecento alla Metafisica, specialmente dagli aedi dell’”alienazione perfetta” come Carrà e Sironi.
Milano per una volta non estrae dal cilindro nessuna novità e anzi adotta un modello iper-collaudato, quello della mostra casalinga con la gloria di casa propria (vedi nell’ultimo lustro quelle su Amico Aspertini a Bologna o su Bronzino a Firenze), ma a ben vedere, in una metropoli che vomita continuamente eventi effimeri e fuochi d’artificio a brevi gittate sulle ultime tendenze, una pragmatica riflessione sul proprio patrimonio artistico e spirituale si tramuta in un’occasione necessaria. E in un calendario dove la bellezza si consuma spesso in notti bianche, domeniche a spasso, settimane della moda, ecc, una mostra lunga una stagione, con opere vibranti da mezzo millennio, sembra quasi un miracolo.
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