La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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AISEC, la più grande associazione gestita da universitari

Scritto da – 3 Luglio 2014 – 15:56Un commento

L’11 luglio a Torino, si sarebbe dovuto svolgere il primo vertice europeo sulla disoccupazione giovanile. La recente notizia del rinvio dell’evento voluto da Matteo Renzi  non rende tuttavia meno attuale l’argomento. Come i media ci ricordano quotidianamente, il tasso di disoccupazione giovanile nel nostro Paese oscilla attorno al 40%, con una conseguente esponenziale emorragia di giovani lavoratori e neolaureati verso altri Stati economicamente più solidi. Abbiamo voluto rivolgere qualche domanda sull’argomento a Giancarlo Ostuni, Presidente di AIESEC Italia e dal prossimo luglio Vice-Presidente di AIESEC International con delega al marketing.

AIESEC oggi rappresenta la più grande associazione interamente gestita da universitari per numero di aderenti e offre la possibilità agli studenti di partire per esperienze di volontariato o apprendistato all’estero in collaborazione con altre organizzazioni no-profit, istituzioni educative, PMI  e Multinazionali in giro per il globo.

Allora Giancarlo. Per un anno lavorerai a Rotterdam, dove AIESEC ha il suo Quartier Generale. Giusto per avere un’idea, quanti studenti ogni anno si muovono per il mondo grazie ai vostri programmi?

A livello globale, nello scorso anno AIESEC ha mobilitato 29946 giovani (di cui il 62% ragazze), procurando loro esperienze di stage presso aziende o di volontariato presso comunità, ONG o istituti scolastici. Il trend è in netta crescita, soprattutto in realtà dove congiunture economiche e sociali spingono i giovani a cercare le loro prime opportunità di crescita – personale, prima ancora che professionale – fuori confine. Basta guardare all’Italia, meno di 300 scambi nel 2010 e poco al di sotto di quota 2000 esperienze internazionali in questi ultimi 12 mesi.

AIESEC è un’associazione non-profit e dichiaratamente indipendente da un punto di vista politico. Ciononostante, dati alla mano, la sua attività ha un impatto in termini economici e politici tutt’altro che virtuali. Per fare un esempio, il programma Erasmus è da annoverarsi tra uno degli atti politicamente più incisivi promossi dall’Unione Europea. La vostra associazione va anche oltre, offrendo agli universitari tutti gli strumenti necessari per interfacciarsi con un mercato globalizzato. In questo senso, quanto credi che il vostro lavoro abbia una ricaduta, ad esempio, sull’emigrazione giovanile?

Per rispondere a questa domanda devo prima tornare al lontano 1948, quando l’associazione fu fondata da 7 universitari dell’Europa post-bellica. La storia alla base della fondazione è puramente umana e decisamente ispirante: un giovane soldato francese rientra in macchina verso casa alla fine delle ostilità, pronto a riabbracciare la sua famiglia. Durante il viaggio, accoglie un suo coetaneo in autostop, anch’egli pronto a tornare a casa: le divise però sono diverse, il ragazzo è infatti tedesco, “nemico” fino a poche ore prima. Dopo gli imbarazzi iniziali, il lungo viaggio mette i ragazzi a nudo, scoprendo identità più che differenze, sogni in comune più che paure: arriveranno alla conclusione che il mondo non può permettersi altri conflitti basati su pregiudizi e scelte commerciali di una leadership immatura e verticale. Fondano AIESEC, con lo scopo di favorire le relazioni amichevoli tra i popoli del mondo attraverso lo strumento dello scambio internazionale.

Negli anni, l’associazione è cresciuta insieme ai tempi, ed ha attraversato varie fasi a seconda del momento storico che attraversava: oggi, presente su tutti i continenti e su territori connotati da profili sociali, politici ed economici diametralmente differenti – forte della sua natura non discriminante e non politicamente schierata, AIESEC punta in maniera ben definita allo sviluppo nei giovani di tre elementi molto chiari. Consapevolezza di sé, competenze comunicativo-relazionali, responsabilità sociale. Il tutto tramite lo strumento la mobilità internazionale e l’esposizione a contesti diversi da quelli della regolare vita universitaria.

Detto questo, ognuno è libero di usare la piattaforma AIESEC come meglio crede, fermo restando che non si tratta assolutamente di un trampolino per l’emigrazione. Il concetto che, ad esempio, è promosso da AIESEC Italia è quello del “vai, impara, e torna a casa”, portando cambiamento, innovazione, diversità. Sono fortunato nel poterti raccontare, nei miei 4 anni in AIESEC, storie di tanti ragazzi che, a seguito dell’attività associativa, hanno avviato un progetto imprenditoriale nel loro Paese; tanti ragazzi che hanno portato cambiamento in realtà organizzative già esistenti; tanti ragazzi che hanno deciso di intraprendere percorsi professionali distanti dal loro curriculum universitario, avendo scoperto la loro vera passione in un’esperienza internazionale. All’estero puoi reinventarti, sei costretto a rimettere in discussione molti paradigmi, e capisci quanto valore nascosto c’è nel tuo Paese.

Certo, conosco anche storie di ragazzi che, una volta aperta la porta del mondo, hanno proseguito le loro carriere all’estero. Lo ritengo un fatto positivo, così come i tanti giovani stranieri che sono rimasti in Italia dopo le loro esperienze di stage qui. Il mondo è interconnesso, non accettarlo e sfruttarlo al meglio per il bene della comunità sarebbe una leggerezza, a mio parere.

Le migrazioni sono un fatto costante della storia dell’uomo. Quelle alle quali assistiamo oggi sono però dettate da motivazioni economiche, come quelle che spingevano i nostri nonni a spostarsi, valige di cartone alla mano, nelle terre d’oltreoceano a cavallo tra il Diciannovesimo ed il Ventesimo Secolo. Dei giovani laureati di oggi che emigrano in altri Paesi quanti, dal tuo punto di vista, prendono questa decisione per libera scelta personale e quanti invece sono stimolati (o costretti) dalle leggi del mercato del lavoro?

Leggevo circa due mesi fa dell’incredibile numero di Italiani che nell’ultimo anno hanno fatto richiesta di residenza a Londra. Cifre incredibili, anche se spesso non si parla di laureati ma di giovani alla ricerca di opportunità e indipendenza economica, difficilissima da trovare nello stivale, indipendentemente da un sempre meno utile titolo di studio.

Non nego che l’idea di vivere fuori casa sia eccitante e abbastanza “cool”. Lo dico con consapevolezza, essendomi da poco trasferito a Rotterdam: si fa quasi difficoltà ad avere nostalgia. Ma c’è una grande differenza tra il partire per qualche mese, anno, e il partire per non tornare. In questa seconda scelta intravedo un briciolo di disperazione e rassegnazione, e anche uno spicchio di convenienza, se me lo concedi: parto perché da noi non ci sono le condizioni per avere un lavoro stabile, per mettere su famiglia, per avere certi margini di sicurezza sociale, e cercare di cambiare le cose qui è difficile e lento, quindi meglio andare su altri lidi e trovare la pappa pronta.

Sono convinto che il “genio” italiano esista ancora. Sono certo che, mettendo insieme le teste pensanti che sono dentro i confini – tantissime, per fortuna – e quelle che hanno lasciato il Paese definitivamente o provvisoriamente, si possa dare un sacco di speranza al Paese.

L’unica, provocatoria domanda che mi pongo spesso ultimamente è: non c’è un filo di egoismo e nazionalismo novecentesco nel volere il meglio per il nostro Paese? L’Italia del 2030, nella mia testa, è estremamente multietnica, collaborativa, europea e oltre. Il che vuol dire, anche piena di gente dall’estero. Allora, perché non posso accettare come conseguenza della naturale evoluzione globale del mondo il fatto che alcuni dei talenti del mio Paese siano andati ad arricchire altre nazioni, altre economie? Dovrei esserne addirittura fiero. E dovrei iniziare a pensare che “altre nazioni, altre economie” non sia altro che un concetto vecchio, per definire un’idea di mondo che ha smesso di esistere una ventina di anni fa.

A differenza dei nostri genitori abbiamo sì l’opportunità di visitare il mondo, ma siamo anche vigorosamente invitati a farlo. Ma non è forse questo un diritto da considerarsi più fondamentale della libera circolazione delle persone: il diritto a poter restare lì dove si nasce?

La realtà è che la libera circolazione delle persone (che è ancora ben lontana – purtroppo – dall’essere un diritto universalmente riconosciuto) non fa altro che spalancare il mercato. Se sono libero di muovermi, tenderò statisticamente ad avvicinarmi ai poli con maggiori opportunità. Il mio movimento, insieme a quello di altre migliaia di persone, genererà nuovi sistemi, nuovi centri, nuove periferie. È successo nel passato – dal Tigri e l’Eufrate alle prime urbanizzazioni, dalle Repubbliche Marinare alle migrazioni nord-africane – e succederà ancora.

Il punto è che adesso è molto più difficile per un giovane Italiano (di nuovo, parlo dell’Italia perché nel mondo ci sono situazioni in cui purtroppo i problemi sono di ben più profondo spessore) voler spontaneamente restare dove nasce. Semplicemente perché sa che, a costo di qualche sacrificio iniziale, ci sono altri lidi dove la vita può avere orizzonti diversi. E allora come fai a trattenerlo?

È qui che entra in gioco la leadership locale. Ovvero quegli individui – meglio, quelle reti di persone – che fanno in modo di rendere migliore il posto in cui si vive. Dall’imprenditoria, non solo orientata a creare posti di lavoro ma ad avere un impatto positivo sulle comunità con cui interagisce, all’educazione, focalizzata sulla valorizzazione del talento e la messa in discussione dello status quo, per concludere con la politica. Una politica che smetta di parlare di campanilismo e difesa, ma che accetti il contesto storico e si riconfiguri come portale, piattaforma, porto che permetta all’iniziativa della società civile di trovare le risorse e i talenti giusti per realizzarsi.

Una leadership orizzontale e di servizio, che si sviluppa soltanto attraverso una intensa interazione con l’esterno (conoscendo contesti diversi, accettando le diversità, ritrovandosi in ambienti difficili e spremendosi le meningi per attivare le giuste soluzioni) accompagnato da una profonda riflessione intellettuale (definizione dei propri valori, del proprio ruolo nella società, acquisizione di consapevolezza).

È questa la tutt’altro che umile missione che ci siamo prefissi in AIESEC a livello globale: supportare lo sviluppo di una nuova generazione di giovani che vogliono cambiare il mondo, sanno di poterlo fare e si danno da fare per realizzare questo sogno.

Dietro al “capitale umano” si nascondono uomini e donne con una storia legata a dei luoghi, a degli affetti, a delle tradizioni. I dati dell’Istat ci informano che di cinque giovani che vanno a vivere all’estero solo tre fanno ritorno. E il trend è destinato a crescere. Di quanta futura classe dirigente ci stiamo privando? E per concludere, una domanda di rito: tu alla fine, tornerai?

Mi ricollego alla risposta precedente: la strada facile sarà sempre quella di andare verso lidi più sereni. Ripeto, non mi sento in grado di giudicare chi abbandona il nostro Paese, perché mi rendo conto che i confini nazionali si stanno lentamente allontanando dalle cartine. Rimangono nelle nostre teste, nei nostri cuori. Secondo me si può essere davvero degli ottimi Italiani anche stando lontanissimi dallo stivale – e un ottimo Italiano è davvero, davvero simile a un ottimo Egiziano, Brasiliano, Albanese, Cinese, Indiano, Etiope, al di là di ogni pregiudizio. Di questo sono convinto.

Il punto è che sul territorio c’è ancora tanto bisogno di gente che voglia lottare per cambiare. Rimboccarsi le maniche, scontrarsi/incontrarsi con il presente, dialogare e creare futuro. Ancora una volta non credo sia un dovere civico, più una vocazione. Nel mio caso, ad esempio, fremo dalla voglia di tornare. Con calma, dopo aver imparato quello che mi serve ed essermi “testato” fuori dal giardino di casa. Lo sento come un dovere, una responsabilità.

Curiosamente, adesso lavoro con altri 23 ragazzi da 17 nazioni diverse, e sono l’unico Italiano; ma parlando con tutti i miei colleghi, il sentimento è comune. Adesso siamo qui, ma torneremo nelle nostre rispettive “case” forti di questa e di mille altre esperienze, per permettere ai nostri coetanei, ai nostri genitori e ai nostri figli di godersi i vantaggi di un mondo che cresce a ritmi esponenziali.

Senza dimenticare che, probabilmente, saremo una delle ultime generazioni ad avere un concetto così netto di casa.

Ernesto Giannoccaro


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