Roma 15 ottobre 2011. Io c’ero.
Siamo tornati, anche stavolta. E ancora una volta domani sarà tutto come prima. Noi resteremo dei poveri sventurati senza un euro in tasca e con lo spettro, il terrore del futuro (prima, almeno, i popoli venivano illusi con la promessa del futuro), e loro resteranno lì a prenderci per il culo. Oggi, a Roma, c’erano due manifestazioni. Una pacifica, l’altra violenta. Ed è stato un disastro. Perché ci doveva essere una sola grande manifestazione, pacifica o violenta che fosse. Perché il problema è uno solo: decidere cosa vogliamo fare, una volta per tutte. Decidere se è arrivato il momento della violenza, quella “di massa, non armata ma disposta a lasciare sul terreno qualche morto, com’è stata quella tunisina che nel giro di due soli giorni ha spazzato via il dittatore Ben Alì” (come ha scritto recentemente Massimo Fini in un articolo dal titolo “Non è più il tempo delle parole”), oppure scendere per le strade di Roma e d’Italia per fare il carnevale, credendo che qualcuno si impaurisca.
Comunque, il corteo parte come al solito da piazzale Aldo Moro, poi si svolta verso Viale dell’Università, e da lì verso Viale Castro Pretorio, via S. Martino della battaglia, via Solferino, Viale Enrico De Nicola, Via Cavour… Infine la deviazione obbligata verso il Colosseo. Infatti, a “difendere” l’imbocco che porta all’Altare della Patria (quale Patria? Quale popolo?) c’è il muro umano dei soldatini blu e dei loro blindati. Su nel cielo invece volano gli immancabili elicotteri che bruciano carburante e denaro. Il corteo, appunto, vira verso il Colosseo, e un tizio grida a noialtri: “Pecore, siete solo pecore. Il Palazzo è lì, non da quella parte”. Almeno sulla toponomastica, aveva ragione. I cartelli ironici e di protesta sono meno rispetto al solito, forse perché c’è più rabbia. Si notano però alcune scritte eloquenti, come, per esempio: “I veri moderati siamo noi, perché non vi abbiamo ancora steso”. Dai megafoni dei camion che guidano i vari cordoni si sentono le solite frasi fatte, stile politicante provetto, pronunciate con la stessa insopportabile cadenza da vecchio deputato democristiano, o da prete. Poco più tardi si sente un: “Porco Dio, levatele ste bandiere di partito. Mettetevele nel culo. Siamo dalla parte della fantasia”. Questa invece proviene dal camion-carro del teatro Valle, ed è quella che riscuote più applausi. Eccola, la sostanza della rivolta in mancanza della rivoluzione. Tutto intorno, infatti, campeggiavano i vessilli rossi del partito comunista.
Il resto, cioè i fumi e le fiamme di piazza San Giovanni, l’hanno raccontato le telecamere delle televisioni italiane e non ( c’era anche “France 24”), e lo racconterà chi c’era. Un volantino, distribuitomi da non so chi, prescriveva, tra le altre cose: “Don’t Panic. Don’t Run…”. Non farti prendere dal panico, non correre… Per la maggioranza dei presenti, di queste raccomandazioni, non ce n’è stato affatto il bisogno. Perché?
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