Gustav Klimt: un requiem dorato
Si chiama “Jahrhundertwende”, la “svolta del secolo”, quel breve giro di anni a cavallo fra XIX e XX secolo che, nel cuore dell’Europa, crea, o meglio, distrugge le colonne portanti di un Mondo di Ieri irrimediabilmente sfaldato. La rovina di uno splendido palazzo dorato che ancora a lungo rimarrà nell’immaginario come termine ideale di paragone, che ancora a lungo cercherà di non farsi sommergere aggrappandosi alle forme taglienti e ornamentali dell’Art Noveau. Iconizzato e celebrato negli anni a venire, fino nel recentissimo “Woman in gold” di Stephen Frears, che prende a soggetto le vicende postbelliche del Ritratto di Adele Bloch Bauer, gioiello lucente di questo periodo. Ed è proprio in questa Mitteleuropa ripiegata su se stessa che si alza la protesta della Sezession viennese, il canto di rivolta di diciannove artisti separatesi dall’Accademia delle Belle Arti, uniti per farsi carico di un’arte nuova per un tempo nuovo, per accarezzare il sogno della Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, che penetri ogni anfratto della creatività, che sappia liberarsi di ogni schema precostituito dalla tradizione ed emergere, piena di vita nuova, in una Sacra Primavera (Ver Sacrum è il titolo della rivista fondata dal gruppo). Moser, Olbrich, Wagner, Hoffman, nomi diventati sinonimi di un sentire moderno, fondatori di un vocabolario nuovo per parlare di un sentire nuovo. È fra di loro che si erge, monumentale, iconica, la personalità di Gustav Klimt. Secondo di sette fratelli, figlio di un orafo, brillante alunno della Kunstbewergeschule (scuola di Arti e Mestieri a Vienna), precocemente scelto dalla bella società come proprio formale celebratore. Ma fin dalle sue primissime prove ufficiali come Il ritratto di Joseph Pembauero l’Antica Grecia per il KunsthitorischesMuseum di Vienna, Klimt si chiama fuori dalla leggerezza dell’arte ufficiale, dalla bellezza semplice e puramente lineare dei figurini dell’Art Nouveau. Il fascino che emana dalla sua opera è quello dell’inquietudine tesa, dell’incertezza e dell’euforia isterica di chi si trova sull’orlo del baratro e vede già scritto il proprio destino. È l’espressione enigmatica e conturbante delle sue femmes fatales, racchiuse negli scrigni dorati che hanno creato il mito klimtiano, tessuti preziosi e gioielli in cui si incastonano i semi del mondo nuovo: l’ansia di questi annisi materializza sempre in un volto di donna, a metà fra la seducente principessa orientale e la tagliatrice di teste. “Al tempo la sua arte, all’arte la sua libertà” recita il frontone dell’etereo padiglione della Secessione, poco lontano dal centro di Vienna e dalla splendida Majolikahaus di Otto Wagner. E Klimt se la prende la libertà: la libertà di mostrare ciò che si muove ai limiti dell’inconscio, ciò che ancora ha paura di emergere e prende quindi l’onirica forma di una Giuditta o di una Salomè troppo realistiche per non essere un ritratto, di fuggevoli ondine in cui l’esplicita carnalità omosessuale non traccia confini netti con la fluidità scintillante dell’acqua.
È una sensualità, una corporeità, la sua, capace di annidarsi in ogni simbolo, in ogni fregio, in ogni ornamento: e così nascosta si palesa in ogni opera, rifratta in mille specchi, amplificata a dismisura sui muri, sui gioielli e sugli abiti che il pittore aggiungeva solo in un secondo momento ai corpi già raffigurati nudi. Abiti che più che coprirla si fondono con la pelle trasformandola nel mantello splendido di un immaginifico serpente: le donne di Klimt più che donne sono esseri del mito, meravigliose sfingi o sirene che reificano il terrore dello sprofondamento nello Sconosciuto, prima ancora che si scateni l’Apocalisse e che a parlare possano rimanere solo voci mutile e strozzate come quella di Schiele o di Kokoschka (entrambi suoi allievi).
Lo capisce bene la società viennese che lo eleverà per poi ripudiarlo e infine richiamarlo nuovamente a sé, riappacificata nell’abbraccio luminoso del Bacio, opera che ritorna alle origini di due umanissimi progenitori, a ben vedere, tutt’altro che sereni. Ma anche quando le belle dame viennesi faranno a gara per essere ritratte da lui, anche quando le sue tele si trasformeranno in caleidoscopi di luci colorate e ampie vesti orientaleggianti, Klimt non rinuncerà alle sue indagatrici raffigurazioni così tenere e così spietate: le belle facoltose si fanno meste, perse in un altrove non identificato, maestosi uccelli ingabbiati in un oggi che non hanno scelto.
Fino alla fine, lo stesso Klimt adorato e osannato per le sue tele preziose e magnifiche al pari di un mosaico ravennate, rimane un autoreenigmatico, irrequieto.
Lo stesso Klimt che morirà, così come ha vissuto, insieme alla madre e alla sorella.
Lo stesso Klimt che aveva trasformato il suo atelier fuori porta in un harem di modelle e giovani contessine che amava ritrarre con disinvoltura nei più di tremila disegni erotici e autoerotici arrivati fino a noi.
Lo stesso Klimt che aveva eletto a compagna della vita la bella e intraprendente Emilie Flöge, sua musa, amica e amante fino alla morte.
Lo stesso Klimt considerato cantore di una società fastosa e condannata di cui invece stava tessendo l’elogio funebre.
Ma la sua opera non sfocia mai nel biasimo, non è ancora il grido disperato dei “giovani” di cui sarà maestro ed esempio. È un mano che si insinua delicatamente in territori ancora sconosciuti, un omaggio – come lui stesso l’ha definita – alla razza candida e vogliosa degli ipersensibili.
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