Quel che resta della Biennale. Luci e ombre di “IllumiNazioni”, ovvero penultime considerazioni sulla Biennale numero cinquantaquattro a una settimana dalla chiusura.
Il gioco di parole scelto come titolo da Bice Curiger, curatrice della cinquantaquattresima Biennale di Venezia, esige una verifica del termine al suo termine, ad una settimana dal finissage. Le lampadine accese saranno vere illuminazioni? L’illuminismo post-postmoderno inizia dal padiglione centrale dei Giardini. Varco la soglia di lampadine elettriche – luce un po’ letterale? – di Philippe Parreno. Attraversato il buio disorientante e mobile dello “Spazio Elastico” di Gianni Colombo (1967-68), nel salone centrale il generatore del pensiero simbolico dell’intera esposizione sono le tre enormi tele del Tintoretto, drammatico regista della luce interna della pittura. Da qui si snodano i percorsi dell’arte contemporanea. Appollaiati sull’intelaiatura bianca dei soffitti, i piccioni imbalsamati di Cattelan osservano i visitatori e minacciano con la loro presenza il nitore degli ambienti. Incantano le visioni lisergiche di Pipilotti Rist, proiezioni in movimento su tre antiche vedute veneziane, allucinanti lanterne magiche. Amalia Pica usa la luce colorata per disegnare l’intersezione di un “Venn Diagram”. Haroon Mirza, leone d’argento come giovane più promettente, gioca con elettricità, suono, luce e movimento: una pepita d’oro appoggiata su un altoparlante, saltella sulle onde sonore. Disorientata dall’ “Antechamber” di Monica Sosnowska, illusione ottica di corridoi elegantemente tappezzati che finiscono nel nulla, esco di nuovo alla luce del sole per costruirmi un percorso tra i padiglioni nazionali dove, spero, le illuminazioni siano anche politiche ed identitarie.
Allora e Calzadilla nel padiglione USA giocano con l’effetto straniante di sovrapposizioni inconsuete per riflettere sul tema dell’identità nazionale nel mondo globalizzato: ginnasti corrono sui cingoli di un carro armato come tapis-roulant, la Statua della libertà è sdraiata in una doccia solare. Prelevo banconote da un bancomat mentre un organo a canne traduce i codici delle carte di credito in musica solenne. Il padiglione ungherese di Nèmeth inondato di luce rossa fa riaffiorare l’angosciante carica erotica delle lamiere di macchine incidentate mentre un’opera lirica usa come libretto i verbali dell’inicidente. La Danimarca ospita una collettiva sul tema della libertà di parola. Il padiglione francese di Boltanski è un’inquietante “Ruota della fortuna”: una lunga sequenza di foto di neonati scorre su una gigantesca pellicola, al suono di un campanello il nastro si ferma su uno dei volti. Quale sarà il suo destino? Nella sala accanto, i volti di neonati svizzeri e polacchi deceduti si riordinano in combinazioni ibride. Il bellissimo padiglione austriaco di Schinwald ricompone, in un labirinto sospeso, performance, pittura ottocentesca e video con accenti intensamente lirici. Il padiglione finlandese di Aalto distrutto dal maltempo fa calare l’ombra del dubbio: che cosa sopravviverà all’effimero di un’esposizione temporanea? Sono le sei, tramonto, buio su Venezia.
Secondo giorno, l’Arsenale. La passeggiata nelle antiche corderie e artiglierie comincia inciampando negli armadi cinesi di Song Dong disposti come la sua casa di famiglia. Vicino, la piramide di luce-conoscenza di Mai-Thu Perret. Un’ora e mezza di coda davanti vale i cinque minuti nel “Ganzfeld Piece” di James Turrell? La risposta è nella luce cangiante, esperienza percettiva disorientante. La luce delle candele che bruciano nel cuore della scultura di cera di Urs Fischer, riproduzione del “Ratto delle Sabine” del Giambologna, l’ha quasi completamente consumata e ridotta ad ammasso informe, un pensiero all’eternità/transitorietà dell’arte.
Il tempo è protagonista anche di “The Clock”, Leone d’oro per Christian Marclay, orologio animato/film di ventiquattro ore, montaggio di sequenze cinematografiche di orologi che mostrano l’ora in tempo reale. Ogni tanto, dalle finestre, la luce cangiante mostra l’avanzare del giorno sull’Arsenale di Venezia. Una balena insabbiata, il “Geppetto pavilion” di Loris Grèaud, dovrebbe permettere al visitatore l’esperienza di buio e resurrezione di Giona entrando e riemergendo dal suo ventre, ma è recintata. “L’arte non è cosa nostra” è il titolo scelto da Sgarbi per il padiglione Italia. Millecinquecento artisti, molti giovani e dilettanti, scelti da quasi trecento personalità della cultura e dello spettacolo. Sovraffollamento da ipermercato/luna-park, allestimento volutamente provvisorio, un soppalco ospita addirittura un mini-museo della mafia schiacciato in stretti corridoi cigolanti. Cortocircuito dei collegamenti neuronali, blackout. Buio.
“La Biennale d’Arte. 54 Esposizione internazionale d’Arte“, fino 27 novembre 2011, Giardini, Arsenale, Venezia. Orario: 10-18, chiuso lunedì, escluso lunedì 21 novembre. Costi: intero € 20, ridotto € 16, studenti / under 26 € 12.
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