Antonello Venditti: la tenera rabbia di “Sotto il segno dei pesci”
Esordisce così l’ottavo album di Antonello Venditti, un amarcord dichiarato da parte di una delle voci più seguite e inconfondibili del panorama musicale italiano di fine anni Settanta. Un gomitolo dipanato lungo l’epopea di quei dieci anni che hanno cambiato il 18enne Antonello, sessantottino borghese e introverso nato sotto il segno dei pesci, figlio di una professoressa e di un ufficiale di polizia, dalla gavetta al leggendario folk studio di Roma con l’amico fraterno De Gregori, alla trasformazione in bohémien di borgata coraggioso e contraddittorio, fino alla popolarità raggiunta con l’appellativo provocatorio di “divo a metà”. Nonostante infatti il crescente successo, non si concede mai un’intervista di troppo, un servizio fotografico, una promozione per la classifica, mai un Sanremo. Emerso nei primi album come il giovane romano della classe media che si oppone col suo anticonformismo alle imposizioni della famiglia e della società (emblematica “Mio padre ha un buco in gola”, del 1973), già nel 1975 assapora l’hit parade con con “Lilly”, un pezzo che con acutezza e sensibilità individua quel che sarà uno dei punti deboli dei movimenti giovanili, l’uso autodistruttivo delle droghe pesanti, mentre con Compagno di scuola dà la prima picconata a un sessantotto già visto con toni nostalgici e amari (celebre la conclusione del brano, “Compagno di scuola, compagno di niente / ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?”). Venditti non contribuisce al ’68, di cui raccoglie solo i frutti (per di più accettati con circospezione), abbandona la nave a un passo da un ’77 che non lo rispecchia più, e finisce per diventare ciò a cui la sua atipica personalità lo aveva forse destinato: non portavoce della rivoluzione, ma del riflusso. Primo tra tutti trae un bilancio di dieci anni di sogni, lotte, illusioni, traguardi e delusioni, confluendo ogni tendenza non più in una visione collettiva, ma in una relatà intima, quotidiana. L’Italia si sveglia assieme a lui sotto i colpi dell’attentato ad Aldo Moro ferita e ripiegata su se stessa, impotente e incredule di fronte ai risultati di tanti falliti progetti sociali, davanti a mostri mai previsti, davanti a eroi per caso, un’Italia già succube delle televisioni, già scettica riguardo a impossibili compromessi storici, un’Italia di piombo che vuole voltare pagina. Il sipario verrà chiuso proprio da “Sotto il segno dei Pesci”, l’epica galoppata di una gioventù che ha giocato alla rivoluzione, con la generazione dei padri a coprire le spalle (“una casa tu ce l’hai, una famiglia che ti tira fuori dai guai”), di ragazze e ragazzi cresciuti tra manifestazioni e collettivi e poi finita a fare gli insegnanti in qualche scuola di provincia (“e Marina se n’è andata / oggi insegna in una scuola / vive male, insoddisfatta / e capisce perché è sola”) o che ha abbandonato gli studi per vagheggiate utopie, divenute improvvisamente vuote di significato (“Giovanni è un ingegnere, e lavora in una radio/ ha bruciato la sua laurea, vive solo di parole”). Venditti si mostra finalmente per quel che è, uno straordinario interprete dei sentimenti umani e un nostalgico che guarda con affetto alle incoscienze e ai problemi di un’adolescenza idealizzata e allo stesso tempo incredibilmente concreta (lo splendido racconto su una ragazza-madre di “Sara”), che vive disorientato i frutti impazziti dell’emancipazione sessuale (il ménage à trois di “Giulia”). Ricorda come una scanzonata arcadia le difficoltà di inizio carriera con De Gregori, dove i nostri eroi sembravano ancora puri e invincibili, determinati nonostante gli ostacoli (“Bomba o non bomba”), per poi esser proprio lui il primo a tradire l’amico di sempre (la toccante “Francesco” ). Lo straordinario successo dell’album, i palasport gremiti di centinaia di migliaia di persone pronte a sentirsi dire che “Il re è nudo”, la consacrazione dell’autore a indiscusso protagonista delle classifiche italiane, incorona un’agrodolce verità: con il 1978 vengono definitivamente resi obsoleti gli ideali, l’entusiastica militanza politica, e quell’ aspirazione collettiva a lottare per una migliore convivenza sociale che avevano rappresentato le bandiere di un’intera generazione. Ed è stato Venditti il primo a dichiararlo, a capire che l’Italia si sarebbe progressivamente raccolta nella sua vulnerabilità fatta di intimità e sentimento, con il suo
“ma tutto quel che voglio – pensavo – è solamente amore
e unità per noi
Che meritiamo un’altra vita,
violenta e tenera se vuoi”.
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