La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Università, lezioni in inglese. Il caso del Politecnico di Milano

Scritto da – 8 Luglio 2013 – 13:50Nessun commento

Corsi universitari in inglese: scelta d’immagine o necessità di progresso? Non è facile capire dove stia il confine. È stata bocciata la decisione del rettore del Politecnico Azzone di svolgere tutti i corsi delle lauree specialistiche e dei dottorati in lingua inglese. A causa del ricorso presentato da un centinaio degli stessi professori dell’Ateneo. La decisione del rettore, infatti, indirizzerebbe la didattica verso una particolare lingua e verso i valori culturali di cui quella lingua è portatrice, e non favorirebbe l’internazionalizzazione dell’Ateneo. Le cose stanno davvero così? Oppure è possibile rimettere in circolazione la cultura italiana, spesso sottovalutata, soprattutto dall’estero, grazie all’utilizzo dell’inglese come una sorta di lingua franca? Perché sarà anche vero che è alto il rischio di decadenza per una lingua non più utilizzata per il ragionamento scientifico, come sostiene Maraschi, dell’Accademia della Crusca; ma guardiamo alla storia: il latino è stato utilizzato per secoli come lingua del ragionamento scientifico pur senza essere più la lingua madre di nessun popolo. L’utilizzo in ambito accademico non ne ha garantito la vivacità. Inoltre, sono molti i giovani italiani che scelgono di studiare direttamente all’estero, per lo più in paesi anglofoni. La motivazione, spesso, è solo il prestigio superiore delle Università straniere.

E allora non siamo punto e a capo? Possiamo difendere strenuamente l’italiano nelle nostre Università, ma se perdiamo gli studenti italiani e non ne guadagniamo dall’estero (quanti, all’estero, masticano l’italiano tanto bene da frequentare un corso di laurea completamente in italiano?) la nostra cultura si dissolve. Far circolare per l’Europa un po’ della cultura nostrana non sarebbe un male. Attrarre studenti e professori dall’estero non sarebbe un male. L’Europa aperta in una grande comunità intellettuale sarebbe forse un sogno. In fondo, per secoli la lingua franca del sapere è stata il latino. I tempi cambiano, e il latino resta solo sui libri; ma la necessità di un altro mezzo di comunicazione internazionale è sempre viva. E, oggi, l’inglese è la scelta più naturale. Parlare inglese non deve significare diventare inglesi. E nemmeno usare la lingua straniera come semplice lustro e motivo di vanto. Non deve essere una scelta gratuita. Sono i questionari intitolati “custumer satisfaction” che vengono sottoposti agli studenti in certe scuole superiori a non avere nessun senso. Sono i tanti “network”, “mission”, “holding”, “company”, “street art”, “community” (termini scelti sfogliando a caso giornali on-line) a uccidere l’italiano, cioè la lingua che parlano quelli che all’università non ci vanno, quelli che magari non conoscono il lessico scientifico né in inglese né in italiano, ma a forza di essere bombardati ogni giorno e tramite ogni media da queste espressioni perdono il lessico italiano comune.

Viene da chiedersi se abbia senso scagliarsi contro i corsi universitari solo in inglese quando si ignora del tutto il lessico inglese che dilaga dal basso. L’italiano non si impara andando all’università. Lo si conosce perché lo si parla in famiglia, con gli amici. È questo che significa “lingua madre”. È questo che bisogna proteggere. E è questo che invece si lascia morire nell’indifferenza. È preferibile un’Italia in cui l’italiano è la lingua parlata da tutti, piuttosto che un’Italia in cui l’italiano è la lingua parlata dal Politecnico, mentre la gente comunica in uno strano pidgin. Sono le piccole espressioni inglesi che si radicano sempre più a fondo nelle scuole a minare una conoscenza che, ora dell’Università, dovrebbe essere ben fissata e al sicuro. Se si teme che non sia così, il problema è a monte. E non è togliendo l’inglese dalle Università che lo si risolve. L’italiano ha fatto fatica a diventare la lingua della gente comune. Per qualcuno ancora non lo è. Una lingua muore quando si cristallizza come esclusivamente colta, quando la parlano solo quelli che hanno studiato. E a questo punto non ha senso che la parlino neppure loro.

Proteggere l’italiano dal basso è più difficile, ma più necessario. Farlo dall’alto è dannoso, e rischia di riportare la nostra lingua allo stadio in cui si trovava solo cent’anni fa. Favorire l’internazionalizzazione degli studenti italiani, che per lo più dopo la laurea cercano lavoro all’estero, non danneggia né l’italiano né gli studenti. Potrebbe invece aiutare la ripresa, con una nuova linfa data agli Atenei italiani da parte di stranieri, studenti, ricercatori o professori. E non è un problema che riguarda solo il Politecnico. O almeno, non dovrebbe esserlo. L’Italia cosa sceglierà? Chiudersi all’inglese, favorendo l’italiano come lingua della cultura (ma sempre meno lingua madre), col rischio di escludersi dall’internazionalizzazione degli studi? Oppure aprirsi a una nuova lingua franca del sapere accademico?

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