La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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E ci torna la Voce – Da Montanelli a Padellaro, storia di due giornali-fenomeno

Scritto da – 30 Settembre 2011 – 14:43Un commento

«Anche a costo di ridurlo, per i primi numeri, a poche pagine, riavrete il nostro e vostro giornale. Si chiamerà «la Voce». In ricordo non di quella di Sinatra. Ma di quella del mio vecchio maestro – maestro soprattutto di libertà e indipendenza – Prezzolini». Era il 12 gennaio del 1994 quando, dalle colonne de «il Giornale», Montanelli si congedava dai suoi lettori promettendo loro di ritornare entro poche settimane con una nuova creatura, dando, di fatto, il via ad una singolare rivoluzione nel panorama di un’informazione italiana divenuta pressoché piatta. Il giorno prima, la vecchia testata da lui fondata nel lontano 1974 era stata chiamata a prendere posizione, a schierarsi senza dubbio alcuno col suo editore, nonché nuovo presunto campione della rivoluzione liberale e salvatore di quella patria pregna ancora del fetore delle fogne di Tangentopoli: il Nano allupato. La risposta era stata immediata, seccata, quasi irriverente; del tipo: No grazie, io continuo a fare il mio mestiere, voi divertitevi a farne un altro.

Così, il 22 marzo dello stesso anno nasceva il quotidiano «la Voce», un giornale «senza un padrino o un patrono» che disponeva di un assetto azionario capace di garantire l’incondizionata indipendenza da chiunque avesse strane pretese, oppure guinzagli, bavagli, museruole. L’ultima scommessa, l’ultima battaglia di Indro Montanelli; l’ostinata pretesa di mettere in guardia la così detta “società civile” italiana dall’inevitabile comparsa del nuovo regime “di tessera”, mascherato dalla tracotanza e dal profluvio di lustrini e paillettes, piume e rimmel della televisione generalista. La caparbia e la sfrontatezza di chi, da destra, osava snervare, persino sbeffeggiare, ringhiare a quella ridicola parodia di destra che allora, come oggi, deteneva le leve del potere. Una storia brevissima e intensissima: dal 22 marzo 1994 al 12 aprile 1995. Più tardi però, il sogno faceva posto alla realtà delle cose, che presentava il conto: il potere e la prepotenza del Dio Denaro; le dure leggi del mercato; il boicottaggio dello stampatore Colasanto che un bel giorno si rifiutava di mandare in macchina il giornale; la strana coincidenza che quest’ultimo si apprestava a candidarsi nelle liste di Forza Italia; infine la resa.

Scrisse Vittorio Corona, il direttore grafico: «Fu una meteora, certo. All’apparenza uno dei tanti esperimenti editoriali falliti. All’apparenza, però: perché quei 385 giorni hanno in realtà inciso in maniera molto profonda il cuore dell’informazione italiana. L’utopia di un giornale libero e insieme forte. L’ambizione di un giornale-fenomeno. Una vita vissuta a perdifiato, una morte prematura, improvvisa, spettacolare come quella di una giovane star». Aggiungeremmo: l’utopia di una liberal-democrazia e di una libera informazione in un libero Stato. Un giornale d’élite come posizione politica e morale ma non come fattura.

Qualcuno ci chiederà a che proposito rievochiamo una roba di diciassette anni fa. La rievochiamo perché, ci sembra, anticipò molti temi dell’attualità politica degli anni successivi. Perché quella voce non rimase inascoltata e nemmeno priva di eredi e allievi. Facilmente possiamo scorgere i legami, cogliere i nessi che intercorrono tra quell’affascinate storia ed un’altra più recente. Una storia iniziata a Roma l’8 luglio del 2009, illuminata dalle luci di una splendida “notte bianca” contro la Legge Bavaglio, all’Alpheus Multiclub. In quella notte d’estate nasce, non formalmente ma di fatto, il «Fatto Quotidiano», un nuovo giornale che adotta la stessa formula finanziaria de «la Voce» (nessun azionista di riferimento) e che «non riceve alcun finanziamento pubblico» (così recita, con fierezza ed in maiuscolo, persino il logo della testata). Va da se che la linea guida, l’unico faro del nuovo quotidiano sia stata sin da subito la totale indipendenza da ogni potere.

La nuova creatura di Padellaro, il direttore, e Travaglio, il neo-vice, vede per la prima volta le edicole il 23 settembre 2009. La scelta del nome del giovane quotidiano è stata spiegata dallo stesso Travaglio come un omaggio al giornalista Enzo Biagi, mentre il logo del bambino con il megafono si ispira proprio a quello fondato da Indro Montanelli. Da notare che due dei fedelissimi dello stesso Montanelli, che da «il Giornale» lo avevano successivamente seguito a «la Voce», sono proprio Marco Travaglio e Peter Gomez (altra grande firma del nuovo giornale). Come gli illustri precursori, anche questa nuova voce d’informazione conferisce pluralità di sguardo sul panorama italiano, anche questa nasce «per fare stecca sul coro»; come quell’altra, giovane e pungente, è consapevole di dover e voler rivolgersi ad un pubblico multiforme: ci sono i vecchi lettori di Padellaro, i veri moderati strappati alle altre testate, i liberal-democratici di centro-sinistra che non possono più accettare il martellamento dei quotidiani “schierati” e anche quelli della destra “finiana”; infine i giovani, tanti.

Un successo talmente esaltante che, dopo aver creato il tormentone della rete «Arcore’s nights» in versione Grease, la Sora Cesira gli ha dedicato una canzone goliardica dal titolo «Fatti mandare dalla mamma a prendere il Fatto» (parodia del celebre brano di Morandi).

La differenza tra i due giornali risiede solo nella matrice: malinconicamente e testardamente di “destra” la creatura di Montanelli, essenzialmente di “sinistra” quella di Padellaro (per quanto questi stereotipi possano ancora essere considerati validi). Comunque, entrambi ugualmente indispensabili perché, in Italia, la maggioranza traccia sempre un cerchio formidabile intorno al pensiero. Dentro certi limiti, il giornalista e lo scrittore sono liberi; ma guai a loro se osano scavalcarli.

Il giovane periodico, diciamocelo pure, ogni tanto zoppica mica male nella trattazione di alcune questioni, lasciando troppa libertà di penna (o meglio di tastiera) a nobili pensatori del calibro di Stefano Caselli, e forse troppo poca ad Oliviero Beha (uno che, ad esempio, osa chiamare Calciopoli col suo vero nome, e cioè Auricchiopoli o Federopoli). Peccati veniali, si capisce, perché sul sito web trovano spazio e voce variegati punti di vista: puntuali ed immancabili le riflessioni del mai banale Flores d’Arcais, ma ci si può imbattere persino in quelle dei futuristi Granata, Napoli e Rossi (che gettano puntualmente nello sgomento più totale alcuni lettori e commentatori di rete non ancora abituati al pluralismo).

Le cifre, invece, sono sostanzialmente trionfali: se il primo numero de «la Voce» ebbe un successo tanto inaspettato quanto fenomenale (535 mila copie vendute) per poi assestarsi, di fatto, sulle 60 mila giornaliere dei mesi successivi che non basteranno a salvare la testata, «il Fatto» sembra non fermarsi più: 100 mila copie vendute al giorno tra edicola e abbonati e il sito internet che viaggia ad una media di 300 mila contatti unici al giorno e punte record di oltre 400 mila. Addirittura, la previsione degli utili per il 2010 è stata di 10 milioni di euro. Successo ottenuto anche grazie ai costi molto contenuti del giornalismo on-line.

Il tutto, per ribadire due concetti fondamentali.

Il primo: i giornali di partito non hanno un gran futuro, nonostante i cospicui finanziamenti che puntualmente ricevono. Dispiace, a tal proposito, per «il Giornale» (che appartiene ai Berlusconi), «Libero» e soprattutto «l’Unità», il quotidiano italiano che maggiormente beneficia dei finanziamenti pubblici riservati all’editoria di partito. Quest’ultimo, nel 2009, ha ricevuto la bellezza di 6.377.209,80 euro (riferiti all’anno 2008). Per un periodico che vende meno di 50 mila copie giornaliere (dati Ads) è uno schiaffo alla miseria e al proletariato. O forse no? Si diceva una volta che il proletariato fosse rivoluzionario e avesse la memoria lunga.

Il secondo concetto è molto semplice: la sovranità del popolo e la libertà di stampa sono due cose strettamente correlate. L’Italia compie 150 anni ma, nonostante la prepotente affermazione di queste due creature giornalistiche anomale e bizzarre, rimane ostinatamente sorda, cieca e muta. Vale, forse, un vecchio monito di Alexis de Tocqueville, che diceva: «La maggioranza ha spesso i gusti e gli istinti di un despota».

Evviva «il Fatto». Indispensabile perché, lo canta pure la Sora Cesira, non solo «fa gli scooppi, sgama Ruby, e ti scrive di lei!» ma «se te la vedi brutta, ti ci incarti la frutta!».

 

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