La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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La lobby delle armi: la guerra prima di tutto

Scritto da – 21 Gennaio 2014 – 12:262 commenti

Nonostante la crisi finanziaria, nonostante il collasso degli intermediari finanziari con il conseguente fallimento di numerose imprese, alcuni apparati industriali continuano la produzione nel pieno della frenesia indotta dal guadagno: il commercio delle armi “legale” e illegale non si è mai fermato, tantomeno in questi anni floridi di guerre e instabilità territoriali, ma non solo. Le più importanti aziende nel settore, come la Lockheed Martin e la Colt negli Stati Uniti, la Mikoyan Gurevich in Russia e la nostra Finmeccanica, insieme a numerose altre, danno vita a un commercio perpetuo, i cui mezzi legali per regolamentarne gli orizzonti commerciali (Convenzioni, Trattati ecc.) sono inutili.

Come detto, è necessaria una distinzione tra commercio “legale” e illegale di materiale bellico. Il primo è regolamentato a livello internazionale dal Trattato sul Commercio delle Armi (ATT), approvato dall’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 2 aprile 2013, che entrerà in vigore nel momento in cui sarà ratificato da 50 Stati. Il trattato è un tentativo di regolamentare un settore in cui a prevalere è una prassi basata su considerazioni politiche arbitrarie; difatti, testo alla mano, viene affermata notevoli volte la necessità che gli Stati fornitori abbiano cura di chi siano effettivamente i riceventi, nonché l’utilizzo di questi ultimi. L’articolo 7 afferma che gli Stati esportatori devono valutare se il ricevente, con tale materiale, possa «commettere o facilitare una violazione dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, atti di terrorismo o organizzazioni criminali transnazionali». Sono esplicitamente vietate le esportazioni in caso di embargo e verso Stati che commettono crimini contro l’umanità (art.6). Se le dichiarazioni d’intenti sono sempre eccelse, non altrettanto è affermabile per le sanzioni; esse non sono previste per uno Stato che una volta ratificato il trattato non ne rispetti i punti, né sono prese in considerazione le industrie belliche, ben consci dell’enorme potere e della capacità di lobbying verso i rispettivi governi; inoltre, dato che esse hanno una grande capacità di fare cartello, sarebbe stato opportuno inserire delle disposizioni normative che regolassero le loro attività. Il problema, in ogni caso, rimane l’eccessiva discrezionalità dei singoli governi nell’intrattenere rapporti commerciali con gli acquirenti; quindi si tratta sempre di una scelta politica favorita dall’attività di lobbying delle imprese fornitrici, nonché di scelte geopolitiche, con l’ampia complicità delle fonti di informazione “ufficiali”. Ulteriore problematica da sollevare infine è l’esclusione dal controllo del trasferimenti di armi all’interno di accordi governativi e programmi di assistenza e cooperazione militari, come ad esempio quello in essere tra U.S.A. ed Egitto, nell’ambito del quale gli Stati Uniti ogni anno forniscono aiuti materiali e in dollari all’esercito egiziano – nel 2013 1.5 miliardi.

La Camera dei Deputati ha approvato (in corso l’iter al Senato), il 12 settembre 2013, il disegno di legge che ratifica l’ATT, sostituendo ed implementando in tal modo la Legge 185/1990, la quale osteggiava il trasferimento di armi solamente «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’U.E. o del Consiglio d’Europa» (articolo 6 lettera d), con la conseguenza che in caso di violazione non grave, nella più ampia interpretazione, le armi sarebbero potute essere oggetto di esportazione. Come è evidente, in passato l’arbitrarietà era ancor maggiore e non ci dobbiamo stupire se in dotazione all’esercito di Assad figurino sistemi di puntamento per mezzi corazzati prodotti dalla Finmeccanica; nulla da temere però, non siamo gli unici a rifornire gli autoritarismi in Medio Oriente, in quanto anche la Francia, ad esempio, è stato un gran fornitore dell’esercito siriano – lanciamissili Milan ed elicotteri Gazelle.

Ma d’attualità rimane la questione statunitense anche nel fronte interno; le numerose stragi che periodicamente caratterizzano la società d’oltreoceano hanno avuto un forte impatto sulle politiche del presidente Obama – l’ultima il 16 settembre scorso in una base della marina a Washington. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quella del 14 dicembre 2012 in una scuola del Connecticut. Successivamente scoppiò un braccio di ferro tra Obama e la National Rifle Association (NRA), in quanto il primo voleva introdurre una limitazione alla vendita delle armi, ossia il background check, un documento da presentare per accertare che l’acquirente non avesse avuto precedenti penali. La campagna della potente lobby statunitense ha avuto come esito la bocciatura della legge da parte del Senato, il 18 aprile 2013: negli Stati Uniti i gruppi di pressione hanno un enorme peso negli equilibri politici in quanto, non essendo pubblico il finanziamento dei partiti, deputati e senatori sono in balia dei finanziamenti privati. La NRA, essendo uno tra i più potenti gruppi di pressione negli U.S.A., ha avuto vita facile nel convincere i senatori, proprio per la grande quantità di finanziamenti che essi ricevono per la campagna elettorale.

Il commercio “legale” è, come intuibile, molto florido negli Stati Uniti; altrettanto lo è quello estero,  se si considera che gli U.S.A. rimangono il primo produttore di armamenti al mondo: dal 2002 al 2011, si calcola che, nonostante la crisi, l’export di armi sia aumentato del 24% per gli Stati Uniti, del 12% per la Russia, mentre la Cina ha letteralmente raddoppiato i guadagni.

Questi dati, tuttavia, risultano incompleti, in quanto gli eserciti, organizzazioni paramilitari o gruppi armati vengono riforniti in modo illegale, dagli stessi governi che non possono utilizzare la via “legale”.

In merito, qualche esempio potrà rendere evidente l’importanza di questi traffici e la quantità degli stessi.

Uno dei maggiori scandali in questo senso fu il così detto “Irangate”, durante la vera guerra del Golfo, ossia quella tra Iran e Iraq dal 1980 al 1988: come noto, nel 1979 fu deposto lo Shah Reza Pahlavi, uno dei “poliziotti” del Medio Oriente per conto degli U.S.A., a causa della Rivoluzione islamica guidata da Khomeini. Il materiale bellico iraniano era quindi tutto proveniente dagli Stati Uniti, che da quel momento in poi sono divenuti, con Israele, il nemico principale dello Stato islamico; la conseguenza fu la necessità, durante la guerra, di rifornimenti e pezzi di ricambio degli armamenti statunitensi, come i missili anticarro TOW e le batterie HAWK. Gli U.S.A., dal canto loro, avevano ancora i funzionari dell’ambasciata imprigionati a Teheran, quindi da queste premesse prese piede un importante traffico clandestino di armamenti: in primis, furono rivelati i siti dove erano state nascoste le munizioni dal deposto Shah, mentre successivamente fu avviato un vero e proprio traffico illecito, con i cui proventi gli Stati Uniti andarono anche a finanziare i Contras che combattevano il governo sandinista  in Nicaragua.

Doveroso, inoltre, citare la tragica morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin a Mogadiscio, in Somalia, a causa di aver svolto il ruolo dei veri giornalisti; i due avevano scoperto un traffico illecito di armi e rifiuti tossici: in sostanza, era stato scoperto lo “scambio” tra il seppellimento in Africa di rifiuti tossici provenienti da Europa e Stati Uniti, in cambio di ingenti quantità di armi, per gli stessi gruppi politici che lottavano fra di loro.

In tale contesto, come non citare il sanguinoso conflitto in Siria? L’esempio che segue non è nient’altro che una misera parte di quel traffico di armamenti che mantiene le ostilità tra Assad e la galassia di ribelli. Nel febbraio 2013 il New York Times ha scoperto un traffico di armi che coinvolgeva la Croazia, l’Arabia Saudita e la Giordania: l’Arabia Saudita acquistava armi leggere, razzi anticarro e antiaerei, risalenti alle guerre balcaniche, dalla Croazia, per poi trasportarle via aerea in Giordania da dove giungevano ai ribelli. Come è evidente si tratta di traffici continui che riflettono le contrapposizioni strategiche dei vari attori regionali e mondiali; in tal caso l’Arabia Saudita fa da contraltare ai rifornimenti provenienti da Teheran – nel quadro regionale.

Dalla fine della guerra fredda e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica i traffici illeciti si sono moltiplicati, proprio per l’enorme stock di armi e munizioni (sopratutto di piccolo calibro) ormai non più necessarie alla “deterrenza”. Esso costituisce il 20% del commercio mondiale e i traffici sono maggiormente intensi in aree dove le entità statali sono deboli o assenti, come in Africa, principale polo del contrabbando e commercio di armi. Le armi leggere o light weapons sono la causa del 60-90% delle uccisioni nei conflitti, rendendole vere armi di distruzione di massa; quindi, ogni anno, si possono stimare le perdite umane in decine se non in centinaia di migliaia, causate proprio da quelle 600 milioni di armi da fuoco in circolazione, secondo le stime delle Nazioni Unite.

 

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