Millie Jackson, i racconti della vagina
Questa è una storia di emancipazione, questa è la storia di una donna e della sua bocca. No cortei di pasionarie, j’accuse di riporto, non vi sarà la parte di chi ha ragione o torto, solo la scelta di sentirsi liberi e paritari nella più ovvia e complicata delle condivisioni, quella dei sensi. Mildred “Millie” Jackson cresce con il padre nelle piantagioni di cotone della Georgia, sono gli anni sessanta e l’adolescente prende una decisione: fuggire a Brooklyn dalla zia in cerca di fortuna. La pelle nera, occhi infiammati e gambe chilometriche, Millie viene scelta come modella per alcune riviste, tra cui Jive e Sepia, ma sono le notti di Harlem a rivelare con i loro riflettori qualcosa di più: una bocca infinita, che ammalia con le sue doti affabulatrici.
Nasce il rap prima del rap, vibrato dalle labbra più carnose che Mick Jagger abbia desiderato, e da quella piccola caverna vocale vengono invocati lampi di pura lava, un timbro vocale potente e quasi tenorile, che scuote ed esorta con inviti e richiami. Millie fin da subito domina il palco, porta canzoni proprie o stravolge quelle altrui, sempre con una debordante sensualità, con la sua voglia di amore e affermazione. La Spring Records le propone subito un contratto, vorrebbero farla esordire con “My Man A Sweet Man”, uno dei potenziali singoli dell’omonimo album di debutto, ma Millie impone un pezzo già molto diverso, che fa trasparire il proprio carattere deciso, liberamente aggressivo, “Ask Me What You Want”.
È un successo, il primo della carriera, e questa ragazza che sicura di sé buca lo schermo di Soul Train (la più importante trasmissione tv dedicata negli States alla black music) la pone in diretta concorrenza con le altre star dell’epoca. Un mondo, quello della discografia nera, che stava cercando nel suo difficile riscatto sociale un passaggio dai 45 giri di evasione pop, con cui fino allora avevano attirato il pubblico bianco, e una via all’album concettuale, dove poter trattare tematiche più impegnative e di attualità, legate alle problematiche degli afroamericani in America, o ai rapporti interpersonali in una sfera più intima e approfondita. Tra le dive femminili era avvenuto l’importante trapasso dall’immagine innocua e pilotabile delle Supremes o delle Ronettes a quello di performers più grintose e leonine, da Etta James ad Aretha Franklin fino a Tina Turner, tuttavia sempre dipendenti dalle composizioni altrui e dalla propria maschera. L’immagine di showman ribelli che nella realtà a sipario chiuso erano donne fragili, succubi dei partner, degli stupefacenti, del successo.
Poi arriva Millie Jackson. Che “usa semplicemente la bocca”. Per far esplodere una dinamite di sentimenti mai incisa su disco. L’album successivo, “It Hurt So Good”, parla chiaro: la ragazza non solo vuole parlare francamente di sé e dei suoi amori, non solo si getta in una relazione dopo un’altra senza sentire il peso di un atavico dovere pre-coniugale, ma ci dice che questa girandola di emozioni “fa soffrire così bene”. È un auto-compiacimento sincero, che smarca il mondo della letteratura musicale sia dai cliché edulcorati che da quelli provocanti, e trova la sua prima pietra di paragone in “Caught Up”, il primo concept del 1974. In copertina abbiamo una ragnatela, al centro un uomo, ai lati due donne: tre protagonisti “intrappolati” nel ménage di matrimonio e infedeltà. Millie adotta sia il punto di vista dell’amante che della moglie tradita, e vi è spazio anche per l’uomo sposato preda del rinnovato amore: tutti sono protagonisti, tutti colpevoli ma assolti dal prepotente desiderio di esprimersi al di là delle convenzioni sociali.
La battaglia tra i sessi diviene una battaglia del sesso, e viene portata al massimo scontro nel seguito “Still Caught Up” del 1975, senza esclusione di colpi: si celebra l’infedeltà come diritto umano, non cercata ma non evitabile nel manifesto anti-moralista “If Loving You Is Wrong (I Don’t Wanna Be Right)”. Il clamore delle vendite aumenta, Millie incita le casalinghe sotto chiave a far valere la propria autonomia di giudizio, ma valorizza il nubilato, ancor meglio se promiscuo, come esperienza consapevole, goduta e responsabile. Il pubblico maschile rimane sorpreso ma affascinato dal fenomeno di una donna non solo incontrollabile, ma decisa ad “autogestirsi” per sviluppare il naturale istinto dell’unione. Il tripudio di questo audace climax tematico si avrà con l’epocale “Feelin’ Bitchy”. Millie non tenta più di impersonare ruoli, ma getta via ogni pudore, “Sentendosi Puttana”. I negozi di dischi esplodono all’arrivo di quel funk bollente e censurato, le donne di provincia si recano di nascosto a comprare le copie sussurrando a malapena il titolo dell’album, come se quel vinile scottante parlasse troppo di loro. L’artista solleva un vaso di Pandora senza alzare la minigonna, usa l’intelligenza per amare, e la passione per infrangere il cliché della donna senza peccato e dalla tiepida libido. Si consolidano nel frattempo le doti di scena, in epici monologhi che ironizzano sulla vita di coppia, sulle frustrazioni represse e il lato piccante della vita, chiama uomini sul palco, e scambia opinioni con il pubblico femminile: nasce effettivamente il rap, prima dei campionamenti degli anni ottanta, prima dei gangster e delle pose di costume. Le dote istrioniche e la lingua verace raggiungo il loro culmine nella famosa “Phuck You Symphony”, un corrispettivo di “Io se fossi Dio” di Gaber, in cui viene riassunta tutta la poetica volutamente “esplicita” e ferocemente realistica della Jackson, in cui viene immersa nell’acido tutta l’ipocrisia privata e pubblica, in un esilarante gioco al turpiloquio che sbatte in faccia i contenuti, dissacrando ogni formalità.
Passano gli anni, e Millie diviene insieme a Isaac Hayes uno degli emblemi dell’immaginario erotico afroamericano, ma non solo. Offre una via alternativa al femminismo che aveva proliferato in quel decennio, dimostrando come tra i sessi non vi sia bisogno di antagonismo o emulazione, ma di puro, ferino confronto sensuale. E con istinto Millie vive ogni nuova avventura della propria vita, dalla famiglia che cresce felice nonostante le turbolenze, al ritorno discografico negli anni ottanta con quella che viene considerato uno dei dischi dalla copertina più oltraggiosa di sempre. In omaggio alla sua musica, a quel funk sporco dove domina la sostanza, “the shit” come ambiguamente viene chiamata in gergo afro, intitola il nuovo album “Back To The Shit!“, con in copertina la cantante seduta su un gabinetto, e il volto contorto in uno sforzo… l’iperrealismo al potere, insomma. Mrs. Jackson è divenuta l’una delle rarissime artiste che può dire “tutto quello che avreste voluto sapere e non avete mai osato chiedere”, e dirlo con arguzia, capacità, alternando vis comica e ballate drammatiche, senza fantasticare o inventare niente.
Il suo zibaldone lirico è divenuto negli anni il rifugio dell’ordinaria ricerca del piacere, inteso come un bene non precluso a nessuno, né per colore, genere o età. Infatti il suo più grande successo degli anni novanta, “Young Man, Older Woman” analizzerà proprio il fenomeno della cosiddetta “milf”, inaugurando un tema musicale fino allora inesplorato dai tempi dei velati sussulti de “Il laureato”. La nostra eroina è ormai una signora di mezz’età ancora avvenente, e decide di dedicare un intero album a rompere l’ennesimo tabù, quello della non accettazione femminile dell’invecchiamento, per elogiare i vantaggi di una relazione con una donna matura, ricca di fascino ed esperienza. Millie ancora una volta stupisce, e nel frattempo organizza una tournée teatrale sull’album, diventa apprezzata attrice e crea un radio show dalla propria camera da letto per un’emittente di Dallas, che continua con grande seguito ancora oggi dopo 13 anni.
La signora dalla grande bocca continua a non deludere, e solo adesso possiamo riconoscere, dopo decenni, come il suo senso di libertà non è stato ancora completamente approvato, soprattutto dalle donne. Tra il bigottismo, l’indifferenza amorfa e il neofemminismo, si è reso difficile comprendere come l’elogio di sé debba passare non da un percorso autoreferenziale o incentrato sul proprio stretto universo uterino, ma da un potenziamento con la parte a noi complementare. L’elogio dell’erezione maschile come una necessità dell’appagamento vaginale è qualcosa che prima di lei nessun Freud aveva spiegato con tanta gloria terrena, come le brutalità dell’abbandono, la stupidità delle vite parallele, ma anche la necessità di un divorzio, della dignità del riprovarci, tra divertimento e speranza.
La signora Jackson ha offerto un triviale libretto delle istruzioni per quella giostra pericolosa ma libertaria dove tutti ci dobbiamo sentire coinvolti in tutto, come professava lei nella splendida “All The Way Lover”. Insomma, come da traduzione, “una donna per tutte le stagioni”.
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