La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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“Senza fine”, intervista al vicedirettore de “Il Manifesto” Angelo Mastrandrea.

Scritto da – 9 Marzo 2012 – 12:24Un commento

I redattori de “Il Manifesto” sono da poco rientrati dalla pausa pranzo quando mi accolgono nella loro sede di via Bargoni, quartiere Testaccio. Durante i pochi minuti di antecamere mi soffermo di fronte la cornice che contiene la prima pagina del primo giorno di vita del giornale, uscito in edicola il 28 aprile 1971.

Accanto alla notizia di 213 denunce contro gli studenti a Roma, c’è un editoriale di Luigi Pintor intitolato “Un giornale comunista”. Così scriveva il fondatore scomparso nel 2003:”Molti ci hanno domandato in queste settimane, a volte con simpatia, anche a volte con astio:”Ma perché fate un giornale quotidiano? Come pensate di riuscirci? E a che cosa potrà servire?” Parole che ritornano attuali oggi che la cooperativa è in liquidazione coatta amministrativa.

 

Sono passate alcune settimane dall’inizio di “Senza fine”, titolo della vitale battaglia che state conducendo insieme ai compagni scrittori e agli amici lettori. A che punto siete con la sottoscrizione?

La sottoscrizione va molto bene, abbiamo avuto una risposta perfino inaspettata per noi che siamo abituati a fare sottoscrizioni. Temevamo che questa volta, all’ennesimo “al lupo al lupo”, dato che siamo anche in un periodo di crisi, non saremmo riusciti a sensibilizzare i nostri lettori. Invece abbiamo raccolto più di seicentomila euro in una decina di giorni, abbiamo registrato molti abbonamenti sia per il cartaceo, che per il digitale e la vendita in edicola ha avuto un aumento di circa cinquemila copie.

 

Questa situazione vi ha portato ad aprirvi nei confronti dei social network come facebook e twitter. Avete scoperto di avere molti più sostenitori di quanti ne pensavate?

Forse ne abbiamo scoperti di diversi, nel senso che noi abbiamo un rapporto molto diretto con un certo tipo di lettori che è il lettore tradizionale de “Il Manifesto”. Alcuni sono organizzati in circoli, che sono in tutto una trentina sparsi per tutta l’Italia; sabato scorso a Bologna c’è stata un’assemblea nazionale il cui slogan è stato “Aiutiamo Il Manifesto” e a cui abbiamo partecipato io, Gabriele Polo e Loris Campetti. Probabilmente, su facebook siamo entrati in contatto più diretto con un tipo di lettore più giovane, ovvero quello che va dai venti ai quarant’anni, quindi studenti e lavoratori precari, senza dimenticare quelli che appartengono alla categoria dei cervelli fuggiti all’estero che magari ti leggono sull’iPad dall’Australia.

 

Nel corso della vostra storia avete dato vita anche a progetti come l’editrice “ManifestoLibri” e l’eticchetta discografica “ManifestoCd”. Sono inclusi nel vostro piano di rilancio oppure li aveti sospesi?

Sono due situazioni differenti; la casa editrice sta continuando a fare libri e ha comunque un’amministrazione separata rispetto al giornale, mentre di dischi non ne facciamo più da qualche tempo per un problema molto specifico: il cd, inteso come supporto fisico, non si vende più come una volta e la musica te la puoi scaricare comodamente su piattaforme come iTunes. E’ un problema abbastanza serio perché la casa discografica negli anni ’90 è stata all’avanguardia scoprendo alcuni artisti come Daniele Sepe e riportando in auge altri come Enzo Avitabile che era rimasto un po’ nel dimenticatoio.

 

Oltre a voi ci sono altre testate di sinistra che sono in crisi: Liberazione non esce più in edicola, così come Terra e anche Carta che era un settimanale a voi amico. Che questa crisi della stampa non sia un riflesso di quella che sta vivendo politicamente la sinistra italiana?

Assolutamente sì. “Il Manifesto” ha sempre vissuto dei successi e degli insuccessi della sinistra, anche in maniera anomala: la caduta del muro di Berlino ci ha portato tantissimi consensi; questo perché il giornale nasceva da un’eresia, da una contestazione nei confronti del socialismo reale. La cosa che è accaduta negli ultimi anni è in realtà una crisi più profonda della sinistra, una grande frammentazione che ha portato a una deriva più culturale e ideale. La gente di sinistra non è scomparsa, ma è molto disorientata, quindi credo che il nostro compito sia quello di ricostruire una cultura più che star dietro a questo o a quel partito.

 

Il dibattito sulla legge per il finanziamento pubblico dell’editoria rischia di esporre alla gogna quelle testate che ne hanno sempre usufruito in modo leggittimo, rispetto a quelle di partito come “Il Campanile” dell’Udeur, che ha sempre suonato a morto. C’è comunque bisogno di una riforma della legge affinché il meccanismo di erogazione possa essere migliorato?

Nel 1981 “Il Manifesto” è stato uno dei promotori della legge che istituì il contributo pubblico per l’editoria. Pensavamo che c’erano forme di cultura che per ovvi motivi facevano fatica a sopravvivere al mercato e quindi avevano bisogno di un sostegno. In questo momento tutti i giornali sono in perdita, ma quelli che hanno un proprietario che persegue interessi politico-economici ben precisi, possono permettersi di ricapitalizzare e quindi vanno avanti. Questa legge ha fuonzionato fino all’arrivo di Berlusconi al governo che l’ha eliminata e noi sapevamo bene che cancellandola si sarebbe arrivati al mercanteggiamento. Abbiamo proposto al governo una legge con criteri pubblici e trasparenti che sono semplicemente legati al fatto che non devi riuscire per forza a stare sul mercato da solo, perché altrimenti sospendiamo tutti i finanziamenti alla cultura come vorrebbe la destra e andiamo al cinema a vedere solo i cinepanettoni. I costi di un giornale sono molti, è giusto che ci sia un sostegno da parte dello Stato.

 

Con la scusa della Casta si pensa a una riforma elettorale e costituzionale che porti all’innalzamento delle soglie di sbarramento e alla riduzione del numero dei Parlamentari mettendo in difficoltà le forze che attualmente sono fuori dal palazzo. Con la scusa della crisi e dell’austerity si chiudono i fondi per la cultura e per l’editoria non finanziata dai grandi capitali privati. Stiamo vivendo un berlusconismo senza Berlusconi?

Il rischio di continuità è fortissimo, si tratterebbe di un liberismo depurato dalla corruzione, da quel sistema di potere che si era costruito intorno alla figura di Berlusconi e che a un certo punto non era sopportabile nemmeno dalla stessa destra, dallo stesso liberismo internazionale che lo ha scaricato in primis. Scalfari ha giustamente scritto che esistono anche destre serie, quindi l’equazione destra uguale fascismo e corruzione non è sempre valida. Come sostiene Paul Ginsborg, siamo nel pieno ciclo del privato e quindi bisogna cercare di dare vita a un nuovo ciclo del pubblico, partendo dalla discussione sui beni comuni fino alla loro concreta realizzazione.

 

Non sarebbe anche il caso di risollevare la questione della legge sul conflitto d’interessi, primcipale causa di un mercato editoriale bloccato?

Secondo me questo governo non ha alcun interesse a fare una legge sul conflitto d’interessi. Come accadde l’altra volta con D’Alema, appena deposto Berlusconi è stato tutto archiviato. Il problema è che il governo Monti è sostenuto anche dal Pdl, quindi credo che dietro le dimissioni di Berlusconi ci sia una sorta di protezione, una quaratura del cerchio. È anche vero che Monti ha fatto il commissario alla concorrenza, quindi dovrebbe conoscere molto bene la situazione dell’editoria indipendente. Se non facesse nulla, sarebbe doppiamente colpevole.

 

Come vi rapportate con i comitati dei giornalisti precari?

Li conosciamo benissimo, molti sono anche nostri amici. Sono però delle situazioni differenti: “Il Manifesto” è strutturalmente una cooperativa, per cui quando entri non sei dipendente ma socio. Ovvio che sei un precario di un grande giornale è tutta un’altra faccenda, perché accadono cose scandalose come i cronisti pagati a tre euro al pezzo e altri che scrivono gratis con il miraggio del tesserino da pubblicista. Non si tratta di un problema minore, se si tolgono i finanziamenti alla carta stampata la situazione peggiora e non migliora. Credo che nel mercato del lavoro giornalistico si stiano abbassando le tutele come in altri settori, con l’obbiettivo di avere una maggiore forza lavoro a basso costo e maggiormenti ricattabile dato che i contratti che firma sono al ribasso sotto tutti i punti di vista.

 

La rivoluzione dell’editoria digitale può essere un’opportunità per il vostro quotidiano?

Bisognerà sicuramente adeguarsi dato che si tratta di una questione epocale. Ma rimane un problema irrisolto: la gratuità dell’informazione in rete. Il dominio del sito internet si paga e chi fa il giornalista professionalmente ha dei costi da sostenere. Si potrebbe ragionare su possibili forme di abbonamento, preservando la gratuità delle informazioni. L’emittente Radio Popolare lo fa, chiedendo agli ascoltatori un sostegno in cambio di un palinsesto gratuito. Le formule per arrivare alla soluzione di questo problema possono essere tante, ma bisogna trovarne una che sia la più efficace possibile.

 

Nel 1972 “Il Manifesto” nasceva da una radiazione del Pci e si proponeva come punto di vista alternativo. Qual è il progetto politico che volete portare avanti dal 2012 ai prossimi anni?

Vogliamo lavorare per una ricostruzione di un pensiero di sinistra, alternativo, antagonista e anticapitalista. Mettere insieme le tante lotte, le tante spinte che ci sono a livello locale e poi rapportarle a quello nazionale se non globale. Tornare a parlare di ambiente e di conversione ecologica, dato che nessuno discute di come tornare a produrre crescita abbandonando l’attuale sistema produttivo. Da un punto di vista più giornalistico, utilizzare gli strumenti dell’inchiesta per svelare i marchingegni del liberismo più sfrenato, perché questa è l’epoca del liberismo che arriva ad occupare tutti gli anfratti della nostra società e bisogna che qualcuno ne parli nel modo più trasparente possibile.

 

Bruno Vespa ha detto che sarebbe dispiaciuto nel caso in cui il vostro giornale chiudesse. A voi dispiacerebbe se Porta a Porta venisse tolto dal palinsesto della Rai?

(Ride) Diciamo che ci accontenteremmo se Bruno Vespa riducesse le sue presenze in televisione e magari desse spazio a qualcun altro. Poi potremmo lasciare un angolo anche per lui.

 

 

 

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