La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Un quadro desolante, un comitato d’affari: la stampa italiana

Scritto da – 7 Settembre 2010 – 08:57Un commento

Per cinque giorni, Perugia si è trasformata nel paese dei balocchi per gli appassionati di giornalismo. Passeggiando lungo corso Vannucci, in pieno centro storico, potevi imbatterti in Gad Lerner seduto a un tavolino col fidato sigaro, vedere Emilio Carelli alle prese con gli ottimi salumi locali, oppure notare Diego Bianchi (in arte Zoro) impegnato in una conversazione con una graziosissima ragazza. Oltre cento le conferenze organizzate nell’ambito del Festival Internazionale del Giornalismo, giunto alla quarta edizione. Un’occasione unica per ascoltare e colloquiare con esponenti di spicco del mondo dell’informazione, italiani e non.

Una volta spenti i riflettori su Perugia, però, il ritorno alla realtà di tutti i giorni. Tra i tanti, tantissimi giovani che hanno seguito l’evento e tra gli straordinari volontari del Festival, in molti sono aspiranti giornalisti. Alcuni hanno già qualche più o meno piccola esperienza nel campo dell’informazione, tra giornali universitari, testate locali e siti internet di vario genere.

Un ambiente fatto di tanto sudore, passione, qualche soddisfazione, svariate porte in faccia e pochissimi soldi in tasca. Un mondo che pare lontano dall’affascinante vetrina di Perugia, fatto di precarietà e tagli al personale, di leggi che mettono sempre più in difficoltà i piccoli editori, di libertà di stampa costantemente in discussione. Così, il cane da guardia del potere è sempre meno in condizione di abbaiare. 

PAROLA D’ORDINE: TAGLIARE

Tagli, tagli tagli. All’occupazione, innanzitutto, con centinaia di giornalisti usciti dalla produzione lo scorso anno. Ma le sforbiciate arrivano anche dal governo, con leggi che sottraggono all’editoria risorse vitali come l’ossigeno. Stando ai dati del sindacato dei giornalisti, la Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana), nel 2009 circa in 600 hanno dovuto lasciare il lavoro, e quest’anno secondo le previsioni altri 700 dovrebbero fare altrettanto. Si tratta perlopiù di prepensionamenti, ma non mancano casi di licenziamenti veri e propri. Di assunzioni non se ne parla, molto più conveniente puntare su free lance e collaboratori.

Un ruolo importante lo ha giocato senza dubbio la crisi economica, che ha provocato una sensibile riduzione degli investimenti pubblicitari, colpendo violentemente un settore già in difficoltà.

A peggiorare – e non poco – la situazione, ci ha pensato il governo. Innanzitutto ha soppresso, a partire dallo scorso anno, il carattere di diritto soggettivo dei contributi all’editoria, rendendone incerti dimensione e tempi di erogazione. Un intervento mitigato dal Parlamento, che ha prorogato di un anno il diritto soggettivo, salvando decine di giornali e migliaia di posti di lavoro. Per il momento. Poi è stata la volta del pesce d’aprile, serissimo però: a partire dal primo aprile sono state soppresse senza preavviso, tramite decreto interministeriale, le tariffe postali agevolate. Dulcis in fundo, con il decreto milleproroghe il governo ha eliminato i contributi all’emittenza locale e dimezzato quelli destinati ai giornali editi e diffusi all’estero e a quelli delle associazioni dei consumatori. Un vero e proprio colpo di scure al pluralismo dell’informazione. 

“POVERI” GIORNALISTI

Un quadro della situazione così desolante scoraggerebbe chiunque. Eppure sono tanti i giovani che, consapevoli di quello che li attende, decidono, tetragoni, di mettersi in gioco. Venire assunti (come collaboratori, ça va sans dire) da una testata locale non è cosa impossibile, anche se la crisi ha reso tutto più difficile. Entrare a tempo indeterminato in una redazione è un’utopia: circa i due terzi dell’informazione dipendono infatti da collaboratori e free lance, quasi tutti precari. La possibilità di fare il lavoro che si è sempre sognato, venendo retribuiti (conditio sine qua non per ottenere l’agognato tesserino da pubblicista), rappresenta senz’altro un primo successo per chiunque aspiri a fare questa professione. Un successo al quale difficilmente ne seguiranno altri. E vivere guadagnando 10 euro o giù di lì ad articolo significa dover fare necessariamente affidamento su mamma e papà, o cercarsi un più sicuro posto da ufficio stampa. Farsi le ossa scrivendo per il giornale della propria città durante gli studi, riuscendo anche a mettere da parte qualche soldino, è un ottimo punto di partenza. I problemi arrivano dopo, quando anche con un curriculum impreziosito dalla laurea e dal tesserino di pubblicista le cose non cambiano. E la vita non è più semplice per gli studenti delle scuole di giornalismo: superare l’esame di Stato per diventare professionisti non dà particolari garanzie. Al di là del fatto che iscriversi al master è assai proibitivo per tanti giovani che non possono permettersi di pagare rette non proprio accessibili.

Al Festival di Perugia abbiamo scambiato qualche battuta con Gianni Perrelli dell’Espresso, invitato come relatore di un incontro sul calcio, poiché tempo addietro fu lui a fare la famosa intervista a Zeman in cui il tecnico boemo parlò del doping nel nostro campionato. Ricordando i suoi esordi, Perrelli ha evidenziato come in passatoi ragazzi capaci e caparbi, dopo qualche anno di gavetta, avevano praticamente la certezza di venire assunti dal giornale per cui scrivevano, mentre oggi è a dir poco difficile che questo avvenga.

 AAA LETTORI CERCASI

Ma diciamoci la verità: non saranno poi così tanti gli italiani disperati per la crisi della carta stampata. Siamo un popolo di santi, poeti e navigatori, ma non certo di lettori. In Italia si leggono pochi giornali, e non è una novità. Siamo agli ultimi posti in Europa nella diffusione di quotidiani (meno di 5 milioni di copie vendute contro i 15 della Gran Bretagna e i 20 della Germania). Non va meglio con i libri, visto che quasi la metà della popolazione non ne sfoglia nemmeno uno all’anno.

Il calo di vendite dei giornali non conosce tregua: nel 2008 era del 2 per cento, l’anno scorso quasi del 10. Alle lacrime della carta fanno da contraltare i sorrisi della televisione, che, potendo contare su un’audience ben maggiore di quella dei giornali, attira la maggior parte degli investimenti pubblicitari. La tv gode del 53,7 per cento della raccolta pubblicitaria, contro il 35,2 della stampa. Caso unico al mondo, visto che negli altri paese è la televisione a inseguire. E il calo degli investimenti dovuto alla crisi colpisce – manco a dirlo – maggiormente i giornali, che vedono nell’affermarsi di Internet un’altra mazzata. Tra l’altro, e questo non viene mai sottolineato, oggi è semplicissimo scaricare illegalmente dalla Rete le versioni pdf dei giornali destinati agli abbonati online, proprio come avviene con film e musica. Quella che si dice la ciliegina sulla torta. 

ITALIA PARZIALMENTE LIBERA

La situazione sinora descritta non è certo incoraggiante, ma il peggio deve ancora venire. Infatti, tralasciando redazioni svuotate e copie invendute e concentrandoci sul contenuto dei giornali, il quadro non migliora (che sia anche dovuta a questo la basse percentuale di lettori?). Secondo il recente rapporto dell’organizzazione indipendente americana Freedom House, l’Italia è un paese in cui la stampa è “parzialmente libera”, al pari di Sudafrica, Congo o Thailandia.

La classifica ci vede al 72° posto, dietro a Trinidad e Tobago, Israele e Cile. Esagerazioni? Certo è che i media italiani sono costantemente sotto pressione. Si pensi alle proprietà dei quotidiani e alla miriade di interessi che vi ruotano attorno. Prendiamo l’assetto proprietario del principale quotidiano nazionale, il Corriere della Sera: Fiat, Mediobanca, Banca Intesa, Unicredit, Telecom, Italcementi e via così. Oppure ci sono i casi de La Repubblica e de La Stampa, entrambe monopadronali, controllati rispettivamente dall’ingegner Carlo De Benedetti e dalla Fiat. Come noto, la famiglia Berlusconi è proprietaria de Il Giornale e della Mondadori e l’imprenditore Angelucci possiede Libero e Il Riformista, quotidiani di due aree diverse. Ma sono tante altre le proprietà pesanti (su tutte Il Sole 24 ore di Confindustria), mentre gli editori puri si contano sulle dita di una mano: il gruppo Class (Italia Oggi, Milano Finanza e altri), Il Fatto quotidiano e Il Manifesto, che di recente ha festeggiato 39 anni con un interessante quanto desolante inserto dedicato alla stampa, da cui ho tratto parte delle informazioni per questo articolo.

Oltre alla mancanza di editori puri, a Freedom House sarà difficilmente sfuggito il conflitto di interessi di proporzioni stratosferiche di Berlusconi, secondo il quale, però, in Italia di libertà di stampa ne abbiamo fin troppa e questo “non è discutibile”, come ha dichiarato di recente.

E chi sa se oltreoceano sapevano della legge sulle intercettazioni proposta dal ministro Alfano.

Esemplare, per comprendere appieno la gravità dei contenuti, è il caso Scajola, alla base del quale ci sono assegni e testimonianze, e non intercettazioni telefoniche. Atti non più coperti da segreto, eppure, se la legge fosse già stata in vigore qualche tempo fa, della casa dell’ex ministro nessuno avrebbe saputo nulla. Come ha scritto Luigi Ferrarella sulle pagine del Corriere il 5 maggio scorso, “Al contrario di quello che i promotori della legge raccontano, e cioè che con essa intendono impedire la pubblicazione selvaggia di intercettazioni segrete, l’attuale testo in discussione alla Commissione del Senato vieta la pubblicazione degli atti di indagine anche se non più coperti da segreto, e questo fino a che non siano concluse le indagini preliminari”. Insiste Ferrarella: “Il caso Scajola rivela quanto ipocrita sia il ritornello di chi vuole far discendere dalla sola rilevanza penale la condizione di ‘scrivibilità’ di una vicenda giudiziaria, e dalla sola qualifica di indagato l’unico criterio di interesse pubblico di una notizia. Il ministro non è indagato ed è possibile che nemmeno lo sia in futuro, quindi in base a questo buffo criterio non si dovrebbe scrivere alcunché”. E se così fosse accaduto, probabilmente Scajola sarebbe ancora saldamente al suo posto.

Forse, il giudizio di Freedom House è stato fin troppo positivo.

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Un commento »

  • Chiara ha detto:

    Una comprensiva mappa dei problemi che affliggono l’informazione italiana, a cui aggiungerei un punto: l’obbligo di iscrizione all’albo per l’esercizio della professione. Mi sembra infatti paradossale che il giornalista, che dovrebbe a mio avviso agire come il “cane da guardia della democrazia”, ottenga la leggittimizzazione a esercitare questo ruolo proprio dall’entità che egli dovrebbe controllare: lo stato.

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