La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Diaz. Don’t clean up this blood

Scritto da – 9 Maggio 2012 – 14:312 commenti

APPUNTI SU UN FILM. Nell’impossibilità di affrontare diversamente, compiutamente e senza cadere inevitabilmente in continue antinomie, un’opera atipica, per il rispetto necessario e dovuto all’aspirazione di costituire un con-tributo alla costante vigilanza della bestialità congenita all’essere umano, indifferente a qualsivoglia civiltà.

PREAMBOLO. “ … Non è un genocidio, ma se prima di indignarsi occorre aspettare che le sofferenze umane raggiungano i livelli di Auschwitz, per lungo tempo e con la coscienza a posto si potranno fare orecchi da mercante alle lamentele dei singoli e dei popoli. Non è necessario che siano presenti tutte le caratteristiche dello stato totalitario perché si riproducano le sue pratiche. La violenza illegittima non è una prerogativa dei regimi nazista e comunista, si ritrova anche negli stati autoritari del terzo mondo e perfino nelle democrazie parlamentari. È sufficiente che la voce dei dirigenti politici la presenti come urgente e necessaria …” Tzvetan Todorov


FISIOLOGIA DI UNA VISIONE. La visione come  “trauma su scala” delle violenze riprodotte. La brutalità inferta, le ferite lancinanti, i pianti striduli e strozzati, le umiliazioni impietose, riverberano dallo schermo come onde nell’etere direttamente captate dal sistema nervoso dello spettatore che d’istinto non trattiene la sua empatica forma di difesa e nel buio della sala sussurra: “Ahia! Basta!”; sino alla fine, quando a luci accese, deve scuotere i suoi muscoli paralizzati per guadagnare l’uscita come un automa, tra afasia e stordimento. I suoi primi pensieri saranno l’innesco di un turbine di sdegno, odio e rabbia viscerali che nulla concedono alla ragione, catalizzati contro il male assoluto, anonimo eppure dilagante. Manicheismo puro, primordiale.

FONDAMENTO. Tutto è avvenuto così come mostrato nei minimi particolari! La “verità fattuale”, adeguamento tra parola e suo referente, che trasuda direttamente dagli atti processuali; frammenti di risposte alle domande “Chi?”, “Dove?”, “Quando?”, a garanzia del rifiuto programmatico dell’affabulazione o della semplice prospettiva privilegiata di un singolo protagonista. Questo il primo caposaldo a sostegno del film “Diaz. Don’t clean up this blood” del regista Daniele Vicari.

 

INDISCUTIBILITA’ E DISCUTIBILITA’. Indiscutibile il valore sociale di un film che riporta all’attenzione del dibattito pubblico uno degli eventi più scioccanti e irrisolti della storia recente, prima che un’intera generazione possa chiedersi di cosa stiamo parlando! (come avviene purtroppo per il film “Romanzo di una strage” a poco più di 40’anni di distanza dai fatti). Analizzabile piuttosto, la testualità filmica e la cifra autoriale con cui Vicari  realizza la propria ricostruzione, ricercando un organico equilibrio tra messa in scena, documentarietà e immagini di repertorio. Ammesso e non concesso il disancoraggio al contesto socio-politico di quel luglio 2001 (l’ambientazione, il G8 di Genova, è relegata a lampi di Tg d’epoca, che associano simbolicamente G. W. Bush all’over sound “incontro tra potenti” e  Berlusconi in conferenza a decretare la risoluzione dei tragici eventi) l’autenticità e la validità dell’opera risiedono essenzialmente nell’abilità e nella qualità stilistica con cui l’autore ha saputo materializzare la tesi di lancio che promuove il film: “La più grande sospensione dei diritti umani nel mondo occidentale dalla fine della II guerra mondiale”, ovvero le violenze perpetrate nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto direttamente inserite nello stesso solco della tragedia umana della Shoah.“E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo” concludeva Primo Levi nel libro “I sommersi e i salvati”. Riflettendo sul film la mente non corre solo a Levi, eccezionale testimone, ma anche a quanti hanno ostinatamente operato per evitare che questa “Memoria” si inaridisse e cadesse nella quotidianità dei consumi mediatici, su tutti Pasolini e il suo “Salò e le 120 giornate di Sodoma”. Vicari mostra questo stesso coraggio, affondando le mani nel monito mondiale per antonomasia, un passato quasi sacralizzato, considerato imparagonabile a qualsiasi altro eccidio mai avvenuto altrove o  successivamente. Mutuando adeguatamente, sull’opposizione categorica di carnefici e vittime, i topoi iconografici e concettuali di deportazioni indiscriminate di massa, di marchiatura epidermica, violenze, soprusi e umiliazioni disumanizzanti, senza scordare la nozione di “banalità del male” connaturata agli esecutori materiali e ai mandanti istituzionali, sino alla giurisdizione farsa, corruttibile e strumentalizzabile, Vicari tenacemente si muove in un campo d’azione fragile e al contempo supremo quale è la “Memoria emotiva collettiva”, rimedio unanimemente riconosciuto contro il perpetrarsi del male stesso.

Una “Memoria” che i calendari riportano ogni 27 gennaio, identica a se stessa, ormai sterile e vana nei reportage televisivi di servizio o d’approfondimento, nella cinematografia, non solo cult, che continua ad attingere dallo sterminio ebraico come apice delle atrocità umanamente possibili.La scuola Diaz come i campi di sterminio. Monadi autonome di atrocità, levatesi esaustivamente ad emblema della più grande e complessa congerie che le ha partorite (il G8 di Genova/il secondo conflitto mondiale) che per un giorno occupano nell’agenda dei mass media lo stesso spazio riservato all’ultimo genocidio africano o medio orientale. Un’eco senza effetto di pietà, contraddizione di una retorica inefficace!Nel film “Diaz. Don’t clean up this blood” lo scopo di rivitalizzare l’orrore nella percezione e sensibilità sopita può dirsi validamente ed energicamente raggiunto. Per poco meno di due ore tutti siamo stati nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Abbiamo trattenuto quei contraccolpi per non dimenticare.  Vicari non elude nulla, per quanto il cuore della sua ricostruzione sia nettamente tra le mura della scuola Diaz, apre sulle scene della indiscriminata distruzione urbana dei black bloc e appare quasi sottolineare l’abuso dell’alibi “sono un giornalista” quale inefficace mantra di difesa per chiunque voglia servirsene, testimonia la perplessità e gli scrupoli di rappresentanti delle forze dell’ordine preveggenti il massacro, ma lascia queste voci annotate a margine dell’economia del racconto, come probabilmente sono nella loro reale consistenza testimoniale e processuale. Irrilevanze di cui render conto per correttezza.

L’indispensabilità del ricordo vivo però non va ipocritamente confusa con la sua insufficienza. Una volta imboccata la strada dell’estremo non è possibile accontentarsi o limitarsi a questo, pur indispensabile, unico scopo. È non si tratta di esasperazione o forzatura, date le intenzioni di un opera così sconvolgente, mirata direttamente alle coscienze delle forze sociali!

Il Cinema, anche quando invoca la matrice documentaria, come tutti gli artefatti culturali del proprio tempo, reca inscritte in se le più vive implicazioni etiche, contemplabili e non, che può suscitare negli infiniti processi di fruizione e sedimentazione culturale.Vicari probabilmente sceglie la coerenza di conformarsi al metodo di lettura (non d’interpretazione) della Storia ufficiale che disegna e sancisce una “Memoria” da tramandare non per Comprensione degli Eventi, ma per Eventi-Funzione, ruoli da ricoprire di volta in volta, sulla base delle assegnazioni impartite dalla ceca legge del più forte.  Bene – vittime – innocenti – pacifisti  da un lato, male – carnefici – violenti dall’altro, nessuna vera zona d’ombra che insinui i labili confini della dissociazione dell’Uomo – Animale Sociale da se stesso,  fisicamente incapace di riconoscersi nel proprio simile.   Il Cinema civile italiano ha affilato le sue unghie. Al dato di fatto segue la necessità di interrogarsi su quali passi  avanti abbia compiuto da quando Elio Petri nel 1970 poneva a chiusura del suo provocatorio “Indagine sul cittadino al di sopra di ogni sospetto” la citazione di Franz Kafka ” Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano”. Auspicabili passi avanti su un sentiero certo utopistico, ma non per questo impercorribile, che rifiuti di alimentare le faziosità e che problematizzi la “Memoria” anziché ridurla ad un album degli orrori.

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2 commenti »

  • […] APPUNTI SU UN FILM. Nell’impossibilità di affrontare diversamente, compiutamente e senza cadere inevitabilmente in continue antinomie, un’opera atipica, per il rispetto necessario e dovuto all’aspirazione di costituire un con-tributo alla costante vigilanza della bestialità congenita all’essere umano, indifferente a qualsivoglia civiltà. PREAMBOLO. “ … Non è un genocidio, ma se prima di indignarsi occorre aspettare che le sofferenze umane raggiungano i livelli di Auschwitz, per lungo tempo e con la coscienza a posto si. […] Leggi l'articolo completo su Orizzonte Universitario […]

  • sports betting ha detto:

    sports betting…

    Orizzonte Universitario » Diaz. Don’t clean up this blood…

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