Antonio Molinari: l’artista oltre il palcoscenico
«Questo grande scenografo del Teatro della Scala, conosciuto in tutto il mondo ha preparato delle sontuose scene, e difficilmente potrebbe essere superato da qualsiasi altro scenografo teatrale.»
Sono giunto per caso all’Archivio Molinari di Milano.
Ho letto una locandina tra i campanelli di un palazzo, credevo si riferisse a un evento da raggiungere altrove: si parlava di una «antologica delle opere di Antonio Molinari». Il riferimento corrispondeva effettivamente a quel condominio di Via Bassini, all’interno di quel che fu l’antico set di Miracolo a Milano. Se non di miracolo, si può trattare perlomeno di miraggio.
Dopo pochi minuti vengo accolto dalla vedova del Maestro, la leggendaria Rosy, che mi instrada tra le tele e le locandine della Scala, partendo dalla Bohème di Zeffirelli del ’79, quella della consacrazione di Luciano Pavarotti, andando a ritroso fino alla storica riapertura del teatro scaligero nel maggio del 1946, dopo le distruzioni della guerra. Fu il gran ritorno di Arturo Toscanini in Italia, ma anche quello di Molinari, antifascista costretto alla fuga durante l’occupazione tedesca,esule in Austria grazie il salvifico permesso di “scenografo”. Partiamo da qui, da quella qualifica che gli salvò la vita (senza risparmiargli i lager nazisti).
Antonio Molinari nasce nel 1902 a Bellinzona da genitori ferraresi, si trasferisce a Milano dove frequenta i corsi di Brera di Palanchi e Comolli, e a vent’anni è già collaboratore di Nicola Benois, il principale scenografo del Teatro alla Scala. Una passione per vivere e mantenersi, allo stesso tempo una professione che evidenzia le peculiarità di un talento poliedrico: rigore compositivo, eccezionale visione prospettica, acrobatici giochi cromatici. È nata una giovane promessa, confermata parallelamente nelle prime mostre milanesi, in gallerie prestigiose come l’Arcimboldi, Il Redentore, S. Radegonda, Gianferrari. Molinari cresce umanamente e artisticamente negli androni dei teatri più blasonati d’Europa, dall’Opera di Parigi alla Royal Opera House di Londra, fino al Bol’šoj di Mosca, oltre al teatro scaligero, di cui diventa un’icona di riferimento in oltre quarant’anni di incontenibile carriera. Il backstage del palcoscenico diviene bottega d’eccellenza in cui sviluppare all’unisono mestiere e poetica stilistica, liberando il segno da costrizioni formali e architettoniche, e il colore dalla rigida mimesi figurativa.
All’insegna della contaminazione pura Molinari rivoluziona le tecniche scenografiche, definendo una vera e propria “scuola italiana” affermatasi a livello internazionale (riconosciuti ormai come capolavori i suoi contributi per Strehler, Visconti, Rossellini, De Filippo). Un estro sapiente e dal sapor romantico, che porta nei pannelli delle quinte teatrali la fantasia, l’interpretazione immaginifica dell’ambiente, con una comunicatività panica sconosciuta alla scuola tedesca, che aveva imperato sui palchi d’Europa fino alla metà del secolo.
Il merito va ascritto a quella che lui definiva la sua «magnifica amante», cioè la pittura. Primo amore, coltivato fino a più di novant’anni nel proprio studio, foriero di apprezzamenti talvolta imprevisti. Come quando venne menzionato per merito dal Re Vittorio Emanuele III e da Mussolini, che lo inserì tra i candidati per il monumentale progetto dell’E42. Lui libertario e antifascista, che riparato a Vienna durante il conflitto si adopererà per il reinserimento in patria dei soldati italiani e per la salvaguardia delle opere d’arte dell’Ambasciata Italiana. Impegno sociale, e un temperato ma incrollabile ottimismo, hanno sempre caratterizzato l’attività di un eterno ricercatore, assetato e prodigo di un’eccezionale carica vitale.
In esposizione all’Archivio Molinari sono facilmente individuabili i paradigmi di una ricerca formale lunga un secolo, in un confronto vorace e continuo con le molteplici mutazioni delle correnti artistiche del Novecento. Dai primi scorci figurativi, i nudi a carboncino e le vedute della vecchia Milano, fino agli acquarelli astratti degni anni sessanta, agli impasti informali di materie dense, fuse con cromie roventi, vibranti euforia tonale e indagine mnemonica. Probabilmente Molinari è stato uno dei rari artisti italiani della generazione post-espressionista a cogliere con raffinata intuizione, ma soprattutto con pathos coraggioso, quasi neo-romantico, la nuova pittura americana, il verbo di Pollock e di Gorky. Per capire i presupposti è sufficiente una vecchia foto di Molinari nell’hangar della Scala, mentre infierisce in piedi su una tela a terra, con un enorme pennello: un toreador del dripping, forse anticipatore anche in questo, nel suo infinito contagio multidisciplinare.
Si tratta di un corpus continuamente ritoccato e arricchito, godibile e innovativo, che il tempo ha canonizzato con innumerevoli premi ed esposizioni (collezioni e musei nazionali e internazionali, tra cui Milano, Firenze, Chicago, Vienna, Mosca, Dresda), oltra all’avvio negli anni sessanta della seminale cattedra di Scenotecnica all’Accademia di Brera.
Ma ciò che fa brillare gli occhi ancora oggi sono le incredibili collaborazioni in quel mondo apparentemente “in sordina” dei bozzetti e delle tele scenografiche. Tra i vari, vale la pena ricordare: Sironi, Casorati, Guttuso, Carrà, gli affezionati Picasso (che gli donò un bozzetto), De Chirico e Savinio, fino alle dediche calorose di Dino Buzzati.
Meta obbligata per gli appassionati di teatro in visita a Milano e alla Scala, l’Archivio Molinari è un nido di copioso di rivelazioni per i cultori d’arte, e per ogni flaneur incuriosito da un protagonista del novecento artistico italiano.
In più la signora Rosy offre dell’ottimo rosso ai visitatori –come me- più pedanti.
Archivio Antonio Molinari
Via E. Bassini 42 – 20133 Milano
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