Storia del rock. Atto Primo.
E’ la sera del 6 luglio 1954 quando Elvis Aron Presley, un giovane autista della “crowne elettric” parcheggia il suo furgone davanti il Memphis recording service , una delle indies ( piccole case discografiche indipendenti contrapposte alle major) che brulicano la dinamicissima scena musicale di quegli anni. E’ li che lo attende Sam Phillips, il proprietario dello studio per cavar fuori qualcosa di buono da quel ragazzotto con la faccia da angelo e i modi da cow boy, che qualche giorno prima aveva registrato a proprie spese un disco da regalare alla mamma Gladys. Questa volta però è stato proprio mister Phillips in persona a chiede al ragazzo una jam session, una di quelle sedute con bassista e chitarrista come per i cantanti veri. Due, tre prove, una paio di ritornelli improvvisati e poi i tre azzardano un vecchio e dimenticato rhythm&blues dal titolo “that’s alright mama” che fa attizzare le orecchie al vecchio Sam da quell’altra parte le vetro, in cabina di regia. Fermi tutti. Phillips fa riprovare quel pezzo ancora cinque, dieci volte finchè non ottiene quello che cercava: una folgorazione. Quando le radio della zona trasmetteranno il pezzo del giovane Presley, migliaia di telefonate bombarderanno l’emittente radiofonica per sapere di chi fosse quella voce straordinaria: “Elvis chi?”. Il mito ebbe inizio. E fu proprio Memphis con il suo stile definito “rockabilly” a coniare il futuro rock , assieme a Chicago e new Orleans, il triangolo d’oro del rock ‘n roll. Ma nulla avviene per caso. Quella del rock poi, fu una gestazione quanto mai lunga e travagliata che segnò un momento di rottura importante all’interno della società americana. Terminata la seconda guerra mondiale il fermento che questa aveva creato specie tra le giovani generazioni compresse a lungo in un involucro di perbenismo diede il la ad un fragoroso terremoto sociale che allontanò per sempre il mondo giovanile, sempre più attratto da tutti gli atteggiamenti anticonformistici ( in particolar modo il sesso e la violenza), dal modello genitoriale, conservatore e perbenista (immaginatevi i genitori di Ricky Canningum in “happy days”…) . Ed fu proprio il rock ‘n roll a farsi interprete di quelli che la cultura dominante america considerava i mali del tempo, nella fattispecie il sesso, l’alcol e la violenza.
Fino ad allora il palcoscenico musicale era stato dominato dal “pop” (acronimo di popular) dei vari Perry Como e Doris Day, che con le loro melodie melense poco si confacevano al dinamismo ed alla spregiudicatezza delle nuove generazioni. Che abiurarono così la propria tradizione musicale, in cerca di altre forme di espressione sonora. Quelle offerte dalla musica nera, nella fattispecie. Ed in una società fortemente razzista come quella statunitense degli anni 50, che rubricava il rhythm&blues dei neri come “race record” (race= razza) è facile immaginare le conseguenze. Additato dall’establishment come la musica del diavolo,oscena e comunista (siamo in piena guerra fredda), artefice di costumi dissoluti e linguaggi volgari (rock ‘n roll sta per “dondolare e rotolare” con implicite allusioni sessuali), il rock venne pressato al di fuori dei circuiti di distribuzione tradizionali, con il chiaro intento di soffocarne lo slancio: una vera e propria dichiarazione di guerra. Costretto alla clandestinità o a spazi poco piu’ che marginali esso acquisì ulteriore fascino: i ragazzi si passavano di nascosto i dischi dei vari Jerry Lee Lewis, Billy Halley, Chuck Berris (si potrebbe scrivere una storia del rock per ciascuno di loro…) o ascoltando nel buio della soffitta, al riparo dall’intrusione degli adulti, storici programmi radiofonici come il Moon dog rock ‘n roll party di Alan Freed ( per lui la biografia qui di fianco è stata doverosa) o quello di Bob “wolfman jack” Smith che trasmetteva da una stazione pirata al di la del confine messicano. E proprio a loro che va il merito di aver diffuso e promosso il rock ‘n roll, trasmettendo oltre le barricate razziali, i pezzi della musica nera, mentre gli altri DJ al servizio del potere si limitavano a inserire in scaletta le “cover” di quegli stessi brani, riproposte da cantanti bianchi ed edulcorate dal loro potenziale rivoluzionario. Non ci volle molto perché il sistema musicale intuisse la forza commerciale del rock, iniziando la distribuzione di massa dei suoi manufatti musicali. Intanto le piccole indies come la Chess (di Chicago) o la Sun Record (il vecchio Memphis recording studio di Sam Phillips) divennero realtà affermate e ci vollero anni perchè le major recuperassero il gap.
Tutta una produzione cinematografica immortala per sempre la magia di quel periodo irripetibile. Un film per tutti: “blackboard jungle” (“il seme della violenza” ), con “rock around the clock” di Billy Haley a fare da colonna sonora. Ricorderà qualche anno più tardi Frank Zappa : “Al cinema e per la prima volta avevamo la possibilità di ascoltare i nostri pezzi preferiti, senza nessuno che ci dicesse di abbassare il volume!”.
Assorbito dalle logiche del commercio, il rock ‘n roll perderà la genuinità dello slancio, adattandosi sempre più alle esigenze “di scaletta”, finchè gia nel 1958, dopo poco più di tre anni dalla sua nascita, la sua parabola incendiaria potè dirsi conclusa. Il rock ‘n roll era morto per sempre. Ma la sua eredità non fu dimenticata. Dopo la parentesi del twist e del doo wop dei beach boys, 4 ragazzi di Liverpool suonano in un locale di periferia, il Cavern club. L’iniziativa adesso passa ai cugini d’oltreoceano. Stava per iniziare il periodo d’oro della swingin’ London. To be continued….
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