Baaria, la porta del vento
“Baaria” è una porta, un passaggio, il varco quieto della memoria. La chiave d’accesso è nascosta nei titoli di coda, un ensemble di vecchie registrazioni di dialoghi e immagini che il regista ha posto come la firma autoriale più intima. È la voce del pittore Renato Guttuso, Bagherese come Tornatore, a sancire che “Si parla (l’artista dovrebbe parlare) delle cose che si sa, di quelle che si conosce..” Occorre chiarire che questo monito non va inteso come l’alibi che indulga un grande autore a ripetersi nei suoi successi. “Baaria” non è infatti una rivisitazione del celebrato “Nuovo cinema paradiso”, per quanto l’idea fosse auspicabile, anzi quest’ultimo trova in “Baaria” il proprio fondamento e la collocazione primordiale. L’ambientazione siciliana, il racconto generazionale, l’omaggio alla settima arte (cardini della poetica di Tornatore) che riconosciamo in “Baaria”, non sono semplici tributi autoreferenziali, bensì la conferma che “Nuovo cinema paradiso” altro non sia che una delle vicende che avrebbero potuto trovare tempo e luogo a Bagheria.
Così il regista svela le sue radici più profonde:i ricordi reali e fantasticati, i sentimenti, le gioie e i dolori, raccolti nell’arco di 50’anni di storia personale e nazionale, che hanno attraversato il suo animo sensibile d’artista, riflettendo come un prisma di cristallo la mutevole identità di una società intera.
La memoria collettiva non poteva, dunque, che rifrangersi sul grande schermo nella costellazione di personaggi a cui hanno prestato il volto ben noti attori italiani, così da restituire a ciascuno l’intensità e l’incisività delle tante storie che avremmo potuto seguire, se il regista non avesse scelto per noi una famiglia per tutte, i Terranuova.
Una famiglia di umili pastori, in cui al fianco della più nera miseria regna l’onestà del lavoro, gli affetti, i valori sublimi dell’istruzione (negata), della giustizia e del riscatto. La vita, come potrebbero raccontarcela i nostri nonni, così com’era durante la guerra e poi dopo, lungo la ripresa guidata da una fervente politica, che tra rivoluzioni culturali e anni di piombo giunge sino a noi, in una realtà accelerata ed effimera.
“Baaria” è la suggestione di sfogliare un album di ricordi di famiglia. La famiglia di Giuseppe Tornatore, dei suoi compaesani, della ancora giovane Repubblica Italiana, dell’amore e della devozione che lega un uomo e una donna, genitori e figli. Ogni pagina è come un quadro equilibrato compiuto in se stesso. Una rete di storie, fatte di primi piani, fugaci scambi di battute, corse per le strade, panoramiche di paesaggi, che partono dalle finestre di una casa per alzarsi all’orizzonte, invitando lo spettatore a voltare pagina, a proseguire oltre nel tempo.
La fisionomia dei volti che cambia scandisce il passare degli anni in una quotidianità apparentemente statica, nel ripetersi dei gesti gli attori si sovrappongono e i protagonisti maturano felicità e disillusioni.
Tuttavia, lo scorrere del tempo non è affatto lineare. Lungo mezzo secolo gli eventi sono anticipati dai sogni e dalle premonizioni, deviati dal caso e dalle necessità, ricorsi circolari che tornano nelle generazioni successive, proiezioni dell’immaginazione e dell’innocenza del bambino che anima ogni adulto.
Ancora una volta Tornatore rimarca la Pascoliana concezione del mondo scoperto con gli occhi essenziali dell’infanzia. E’ sempre un bambino l’uomo curvo, coi capelli ormai grigi, che non ha mai smesso di rifugiarsi sui monti e di credere alle leggende di paese. E non può che essere bambino l’ uomo che in una dimensione onirica torna a varcare la soglia della propria casa natale.
Le metafore visionarie e lo spazio extratemporale, in cui padri e figli si sfiorano appena, ciascuno nella propria folle corsa, esortano il pubblico a considerare l’opera aperta come l’elaborazione più personale del vissuto dell’autore e a riflettere ciascuno sul proprio privato senza giudizi di sorta.
Ognuno ha nel cassetto un proprio “Baaria” da raccontare, ma solo un grande cineasta come Giuseppe Tornatore avrebbe potuto portare a termine un progetto così complesso e rappresentarlo per tutti nella sua poetica universalità.
L’ultimo capolavoro del regista Baariota, non avrà vinto il 66° Leone d’oro alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, ma è già il primo titolo italiano proposto per l’Oscar. Ancora una volta, come per “Gomorra” di Garrone o “Il Divo” di Sorrentino, il cinema italiano, al di là di concorsi e premi, punta sulla “Qualità” della memoria storica recente, sull’indiscutibile valore di patrimonio culturale.
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