1968-2008: bilancio di una rivoluzione studentesca
1968-2008. Quarant’anni da quella piccola grande rivoluzione, quella coraggiosa e dirompente sfida, quella tumultuosa e azzardata scommessa. E il dibattito su questo anniversario già da mesi ha preso ad impazzare. Ovunque. Grandi quotidiani, salotti televisivi, università e altri luoghi di cultura ne snocciolano, orgogliosamente e sprezzantemente, i momenti salienti, le vere e proprie svolte spartiacque tra un mondo ritenuto vecchio e maleodorante e un mondo che si riteneva migliore, portatore di nuova luce e di autentica emancipazione sociale. Possibile, insomma. Quello stesso mondo possibile dapprima immaginato e concepito nelle aule universitarie, poi rielaborato sotto la spinta degli orgogli sindacali nelle fabbriche, infine urlato e preteso dai furori delle piazze da migliaia di giovani in cerca di nuova identità e nuovi orientamenti ideali. Nelle università, si accennava poc’anzi, germogliò il primo fiore di quella autentica rivolta generazionale che poi avrebbe coinvolto sempre più larghe masse di persone arrivando a fare del ’68 non già una mera segnalazione temporale ma l’avvio di una stagione da più parti definita come “rivoluzionaria”, vera e propria crisi dell’esistente e radicale apertura al futuro. Oggi però ci si accorge sempre più convintamente di come quegli stessi frutti, allora benigni, generati da quella rivoluzione culturale e sociale possano realisticamente essere considerati come i veri e profondi mali di cui il sistema universitario attuale è afflitto. Proprio i frutti marci della rivolta generazionale di allora rischiano di tramutarsi nei semi di una nuova, realistica e perciò più autorevole, rivolta generazionale oggi. E questi semi altro terreno di coltura potrebbero avere se non quello da dove partirono quarant’ani fa, ovvero l’università. Proprio da lì, culla di formazione della futura classe dirigente italiana, dove per una serie di funesti interventi legislativi, si è dato vita a una fucina di incapacità e di clientele. Da lì, dove tutto ciò appena detto non ha fatto altro che consegnarci la triste e malinconica realtà di un luogo una volta centro di formazione e selezione meritocratica oggi ridotto al regno incontrastato di baronìe e nepotismi nel quale le amicizie valgono assai più delle conoscenze, le “famiglie” più del singolo affaticato da anni di studio e specializzazioni, gli agganci ai piani alti più del merito conseguito sul campo. Del variegato e multicolore filone affermatosi prepotentemente con l’onda sessantottina, ci restano effettivi difetti posti alla base dell’intero sistema partorito da quella stagione: la deresponsabilizzazione dello studente e il non riconoscimento di alcuna autorità, la concezione, tutta giacobina, di poter rivendicare, sempre e ovunque, tutta una serie di diritti senza essere sottoposti ad alcun dovere. Decretando la morte della meritocrazia si è sancita la fine, lenta e sofferente, della scuola e dell’università italiana. E che dire di quei professori, un tempo capipopolo e ardenti portatori del nuovo verbo rivoluzionario, ritrovatisi oggi a tessere musa nostalgiche del bel tempo che fu. Quegli stessi professori che non accettano critiche e sfuggono al confronto alti come appaiono dal loro scranno incantato e intoccabile, autoinnalzatisi a pasdaran di quella rivoluzione per certi versi fallita; professori incapaci di trasfondere curiosità e fame di conoscenza perché portatori di una cultura inesorabilmente avviata al declino. E’ lo stesso sistema, per intenderci, che oggi ci consegna il celebre “3+2”, ovvero la riforma voluta nel 1999 dall’allora ministro Zecchino. Quella riforma si poneva la missione storica di diminuire il fenomeno, tutto italiano, dei fuori corso. Se da un lato attualmente si può constatare come quasi un universitario su tre riesca a conseguire il titolo di laurea nei tempi giusti, dall’altro si deve altresì prendere atto di come la riforma rappresenti la degenerazione complessiva del concetto di formazione che porta a svilire il valore stesso del titolo di studio, malinconicamente ridotto al puro e semplice “pezzo di carta” da agguantare come si trattasse di una merce a basso costo. Dinanzi a una rivoluzione, perché di questo si è oggettivamente e malgrado tutto trattato, dall’eredità così pesante ma al tempo stesso contraddittoriamente ricca e variegata, quello che può scaturire non è soltanto una visione critica di quanto avvenuto quarant’anni fa ma soprattutto un invito al domani, sulla scìa di quei propositi che popolarono i sogni e gli ideali dei giovani fautori di quella stagione di novità. Quando diciamo che non c’è meritocrazia, che sono tutti bravi a parlare e criticare, ma poi non fanno nulla e che tutto questo deve cambiare,chiediamoci: «se non io chi e se non ora quando?» E se saremo capaci di rispondere “io ed ora”, faremo la rivoluzione. Ma dovremo farlo insieme, perché come afferma la Arendt «Nella società contemporanea le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una carriera, ma non a soddisfare il bisogno elementare di vivere un’esistenza umana. Lo sforzo (…) sarebbe coronato pienamente solo nell’ambito di un’esistenza politica».
Gianluca Kamal
Facebook comments: