L’Adalgisa: il dissacrante Olimpo milanese di Gadda
Pubblicato per la prima volta nel 1944 presso Le Monnier, L’Adalgisa subisce la sorte di buona parte della produzione gaddiana: rimaneggiata, rivista, ripubblicata, modificata nel numero e nel contenuto dei racconti (che in alcuni casi sono arrivati persino a essere opere autonome). Ma da scritti abbarbicati nella loro intimità come La Cognizione del Dolore o al contrario esondanti come Quer Pasticciaccio, la raccolta di “disegni milanesi” si distacca profondamente. Non tanto per la lingua, sempre altalenante fra le vette e gli abissi dell’idioma italico (e non solo). E nemmeno per lo sguardo cinico e calmo di chi vede e capisce e ride, ma sempre in silenzio.L’Adalgisa trova la sua unicità nella raffigurazione semplice, precisa e acutissima della banalità. In questa ricca raccolta di scorci “di genere”, che variano dalla storia di un’impresa di pulizie al resoconto di una gita serale al parco, Gadda investe con un fascio di luce radente la quotidianità di una Milano borghesissima e attiva, una Milano che ancora prima di viversi si racconta e si guarda recitare, una Milano con le grinze, ma tutte impomatate. Così, sotto le sferzate ironiche di un lingua che sa scivolare con naturalezza dal latino al dialetto lombardo, dalle perifrasi di cinque righe ai più spogli e asindetici elenchi, si squarcia il velo di Maya delle ipocrisie, dei rituali, delle magre conquiste sociali. Le figure che lancia sul palco con tanta studiatissima noncuranza sono uomini e donne comuni, insoddisfatti o realizzati nella loro irrinunciabile ascesa verso il culmine della piramide, dove siede una semidivinità coronata di alloro e nastro rosso proveniente da ingegneristica laurea.
Ad osservarle, analizzarle e restituirle con un sorriso amaro non è tanto quel Gadda ermeticamente logorroico e ripiegato su se stesso della Cognizione (che comunque comincia a affacciarsi nei racconti di taglio amerindo come Navi approdano al Parapagal), ma piuttosto l’intellettuale disincantato e cinicamente ironico che in quella società ci è nato e cresciuto, che per primo si è dovuto piegare alle sue esigenze politecnicali. L’ingegnere dà voce ai suoi personaggi senza (apparentemente) intromettersi: lascia che siano loro stessi a trasformarsi, con un delirante processo mitopoietico, in dissacranti divinità olimpiche, che del pantheon greco romano mantengono unicamente le più ridicole e rancorose passioni, non sfiorandone nemmeno la millenaria regalità. Così senza che il narratore infierisca, per la stessa fragilità delle loro impalcature, queste costruzioni pseudo divine di sportivi e belle signorine si sgretolano, crollano su loro stesse al ritmo di un concerto di musica classica, straordinariamente interpretato come un immenso movimento intestinale.
E del bon ton, dell’etichetta, della sempiterna ricerca rituale del buon marito, non rimane altro che una prozia Adalgisa, defraudata della propria giovinezza e tutta infagottata nelle voglie che ha represso.
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