La solitudine dei numeri primi
Se fossero facilmente esprimibili e comprensibili, non sarebbero solitudini. Soprattutto non sarebbero solitudini in(con)divisibili come “i numeri primi” (divisibili solo per uno e per se stessi) a cui si rifà il pluripremiato Paolo Giordano nel titolo della propria opera letteraria, ora trasposta sul grande schermo dal regista Saverio Costanzo. Il film, presentato alla 67a Ed. della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, si apre con una sequenza che anticipa la fine dei titoli di testa, dichiarazione programmatica del regista. L’inquadratura stretta avanza mostrando squarci di un ambiente visibilmente scenografato. Un allestimento bianco, luminoso, complicato da immagini riflesse negli specchi, in cui si muovono piccoli personaggi mascherati e addormentati. Uno di questi, dal volto dipinto di verde e i grandi occhi spalancati, entra in scena ed urla. Un urlo prolungato, fuori dai tempi teatrali. Incomprensibile. Una mano spegne la radio da cui proviene l’accompagnamento musicale e rivela la messa in scena. E’ una recita scolastica. Un altro piccolo attore dalle quinte accorre sul palco, prende per mano il personaggio che ha urlato e avanzando verso la platea, attonita e silenziosa, si scusa, prendendo su di sé la responsabilità dell’accaduto.
Saverio Costanzo ammonisce così lo spettatore sulla costruzione del film per quadri slegati e onirici. Tempi, luoghi e volti si alterneranno come i pezzettini di un puzzle, elementi di incastro unici, ma confusi tra tutti gli altri, passibili di infinite combinazioni prima di poter essere collocati nel proprio spazio all’interno di una visione ben più grande e complessiva: il perpetuarsi dell’imperdonabilità e dell’incomunicabilità della colpa.
La versione cinematografica delle tormentate personalità di Mattia (Luca Marinelli) e Alice (sempre più estrema Alba Rohrwacher) dall’infanzia all’età adulta, è infatti disseminata di simbolismi archetipici che, celati in atmosfere cupe e psichedeliche (appunto “la messa in scena”, ribadita ulteriormente da citazioni del genere horror) anticipano e rimandano cause ed effetti, rivelazioni ed omissioni, in ultima istanza demandati all’intima e personale percezione degli spettatori. La recita scolastica, le lezioni di scii, i giochi (ancora il Puzzle, gioco troppo impegnativo, simbolo della distanza tra Mattia e i suoi coetanei di 8 anni; “l’Allegro Chirurgo”, predizione della somatizzazione della sofferenza; il Clown, attrazione mista di divertimento e paura), le aspettative duramente imposte dai genitori, il peso di un handicap involontariamente subito sin dalla tenera età, incatenano il futuro dei fragili protagonisti l’uno all’altro e ciascuno alla propria infanzia irrimediabilmente traumatizzata e irrisolta.
Le colpe più recondite che infestano di incubi la realtà. Il particolare delle forbici che tagliano il nastrino di decorazione del pacco regalo, proprio mentre il piccolo Mattia si costringe a chiedere alla madre di sollevarlo della zavorra esistenziale che è per lui Michela, la sorellina gemella ritardata. Le lame taglienti non si dissoceranno mai più dal senso di colpa. Le cicatrici (quella chirurgica di Alice e quelle autoprocuratesi di Mattia), i disturbi psico-alimentari (specularmente anoressia per l’una e obesità per l’altro) saranno l’unica espressione visibile del dolore che i protagonisti riusciranno reciprocamente a cogliere oltre i dialoghi e i gesti forzati, abbozzati, elusi. Parole ed azioni sono sterili e deleteri. La solitudine pare squarciarsi per un attimo solo nella forza della “visione indelebile” (il tatuaggio che suggella l’amicizia tra Viola ed Alice; la fotografia con dedica che spinge Mattia a tornare in Italia).
Il dolore che non si accetta e non si sa esprimere, si ribella alle repressioni razionali e si manifesta dirompente nei sogni allucinati, nei ricordi vaneggiati, nelle immagini cinematografiche che travalicano lo schermo e si fanno ponte di emozioni.
Proprio un bell’articolo su uno splendido film! Brava Carmen!
Un’analisi cinematografica degna di un grande giornale 🙂