La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

Leggi l'articolo completo »
Società

immersione esistenziale del tessuto del sociale

Politica

Dagli alti ideali ai bui sottoscala del Parlamento. Spaccato sulla sfera Politica di una Italia in declino

Scuola e Università

Vita tra le mura d’Ateneo: l’orizzonte universitario

Cultura

Arte, Musica, Letteratura. Dalle Humanae Litterae, il pane dell’Anima

Informazione

Dalla televisione alla carta stampata. Le mille sfumature del giornalismo.

Home » Scuola e Università, Società

I protagonbisti del movimento studentesco: Giuseppe Liverani

Scritto da – 25 Agosto 2010 – 02:47Un commento

Quarant’anni fa Giuseppe Liverani è stato uno dei protagonisti del Sessantotto in Statale. Oggi si occupa della sua casa editrice d’arte, Charta, che ha fondato nel 1992.  Liverani ci riceve proprio nella sede milanese di Charta, in via della Moscova. Sulle pareti del suo ufficio campeggiano motti del tipo: “Che una sola volontà domini su tutto, la mia”, oppure:”Perché ho sempre ragione?” e ancora: “Be sensible:do it my way!”.  Frasi che ci fanno subito intuire di avere davanti una persona dotata di senso dell’umorismo e soprattutto priva di sovrastrutture. La conferma arriva immediatamente, con l’”ordine” di Liverani di dargli del tu.  Al suo fianco Silvia Palombi, partner professionale, che prima dell’intervista ci mette in guardia: quando Giuseppe comincia a parlare di qualcosa di suo interesse, diventa un fiume in piena. E la previsione si rivela azzeccata: rimaniamo nello studio di Liverani per oltre tre ore, coinvolti in una piacevole chiacchierata che parte con il ricordo dei suoi primi passi all’interno dell’Università, passa per le diverse sfaccettature del Movimento Studentesco, fino ad arrivare alla fine di quest’ultimo e ai giorni nostri.

Giuseppe Liverani, cosa spinse uno studente della Statale ad aderire al Movimento studentesco?

Sono entrato in Università nel ’67, iscritto alla facoltà di scienza politiche (che faceva parte del corso di laurea di Legge), senza avere alcuna esperienza politica precedente. Mentre frequentavo i corsi, con la coda dell’occhio comincia a seguire quello che era già iniziato nella primavera del ’67 in alcuni licei, ossia una serie di manifestazioni, soprattutto di tematiche internazionali. Pian piano la curiosità mi spinse a mettere la testa nei primi collettivi per seguire il dibattito e capire quello che si muoveva a livello internazionale, vedi la guerra del Vietnam, e all’interno dell’ateneo, a partire dalla volontà di un’università migliore, di un rapporto diverso con i docenti.

Com’era il rapporto tra studenti e professori?

Nella mia facoltà, quella di Legge, era assolutamente terrificante, baronale. Ovviamente c’erano dei corsi più “aperti”, come lettere o filosofia, ma in generale regnava l’autoritarismo. Noi lottavamo, in prima persona, senza delegare mai, contro l’autoritarismo, per ottenere, ad esempio, l’apertura serale dell’università per gli studenti lavoratori, poiché noi volevamo che anche loro potessero venire in università per studiare, partecipare, confrontarsi; non solamente per fare esami, e andar via col voto politico.

Come si riusciva a coinvolgere i ragazzi nelle assemblee o nelle manifestazioni?

Certamente non era facile. Noi entravamo nei corsi per fare delle proposte o denunciare un sopruso etc. e ci trovavamo la reazione, non il consenso; quello arrivò con il tempo. Le prime volte alle assemblee eravamo in venti persone, ma questo non voleva dire che non avevamo il coraggio di andare avanti. Ci si impegnava per allargare la partecipazione.

Anche tra le varie università?

Certo, si cominciava ad avere dei contatti, seppure con un po’ di diffidenza perché si era gelosi delle proprie radici. A parte questo, ci si rimboccava le maniche, ci si distribuiva il lavoro, si prendeva contatto con gli altri atenei per vedere quando si poteva organizzare un momento di mobilitazione unificante su un determinato problema. Si lavorava, ci si faceva un “mazzo tanto” per gestire la situazione e lentamente si riuscì a interessare sempre più studenti, anche quelli non militanti, che non aderivano a quello che stavamo facendo.

Che rapporto c’era tra Sessantotto e violenza?

Ci sono state sicuramente delle forme di violenza, alcune squallide, come il vandalismo, che veniva però circoscritto con grande decisione. Talvolta rispondevamo alla violenza, ma ciò era necessario per non soccombere. Abbiamo sì fatto le barricate con sedie e banchi per proteggerci dagli assalti dei fascisti che arrivavano da San Babila o della polizia, ma questa non era violenza fine a se stessa, era autodifesa.

I suoi arresti?

Io sono andato in galera quattro volte, sempre per fatti avvenuti all’interno dell’Università. La prima volta nel ‘69 per il sequestro del professore di Legge Trimarchi, che aveva ritirato lo “statino” a uno studente lavoratore: una moltitudine di ragazzi si recò dal docente per chiedere conto, nessuno però lo sequestrò, semplicemente essendo tanta le gente, Trimarchi non era riuscito a uscire. Nel ’73, altro sequestro, con tanto di arresto e carcere, anche d’isolamento, del Rettore Schiavinato, perché il giorno dopo l’uccisione di Roberto Franceschi davanti alla Bocconi, noi della Statale facemmo una “delegazione di massa” per chiedere al Rettore di chiudere l’università in segno di lutto. Lui però non ci volle ricevere, così noi siamo entrati e lui non è più riuscito a uscire, ma non abbiamo torto un capello a nessuno.

Perché i partiti di allora si disinteressarono della contestazione?

Non c’era disinteresse, ci fu innanzitutto la non comprensione di quello che stava accadendo. Il Partito comunista non lo capì subito. Il Pci faceva parte di un blocco, il Movimento studentesco invece era fuori dai blocchi, era autonomo e auto-organizzato. Anche la FGCI, che era quest’organizzazione fortissima del Partito Comunista, non ha mai dialogato bene con i movimenti; un suo dirigente di allora, D’Alema, secondo me non ha ancora capito fino in fondo cos’è stata quella stagione. Non parliamo poi del Partito Socialista: addirittura Craxi favorì, con il questore di allora, Mazza, la stesura del “rapportone” contro gli estremisti che erano all’interno dell’università.

Il sindacato invece è stato più attento, ci ha accolto alla Camera del Lavoro quando non potevamo tenere le assemblee all’Università.

A cosa è dovuta la “degenerazione” del Sessantotto?

Io non parlerei di degenerazione; a un certo punto il Sessantotto si è spento, non è degenerato. Le persone sono cresciute, sono cambiate. Dal ’68 sono nate delle formazioni politiche, tra cui Democrazia Proletaria, che ho contribuito a fondare. Parlare di degenerazione violenta è una semplificazione sbagliata, inaccettabile. Il ’68 è continuato, si è involuto, ha rischiato alla fine, nel ’73, di diventare partitino, e su questo si è sciolto. La “degenerazione” non è quella che ha portato alle BR, alle P38, al terrorismo; c’è stata una naturale evoluzione che ha condotto allo scioglimento del Movimento Studentesco per contrasti interni sulla necessità o meno di continuare il movimento.

Il Movimento come faceva circolare le informazioni?

Le forme di comunicazione erano svariate, dai picchetti, ai volantini, ai tazebao, ossia dei grandi cartelli che scendono dal soffitto sino al pavimento, costruiti la mattina in università, stesi per terra e scritti con pennarelli dalla punta larga, partendo da quello che dicevano i giornali. Era la controinformazione: gli studenti al mattino si fermavano a frotte innanzi ai tazebao per ricevere informazioni.

I giornali di Milano come trattavano la contestazione? Tendevano a dedicarvi poco spazio?

Al di là di fatti clamorosi si cercava effettivamente di mettere la sordina, quindi di trattare gli avvenimenti come se fossero fenomeni locali, scollegati, quando invece erano nazionali, perché tutto succedeva ovunque. Per questo era fondamentale la controinformazione, così come lo è anche oggi.

Nella società attuale i giovani non godono di molto spazio, spesso i loro anni di studi e sacrifici non vengono adeguatamente premiati, difficilmente possono permettersi di diventare presto autonomi dai genitori e molti sono alle prese con il precariato. Perché se c’è stato un ’68 non può esserci anche un 2008?

Secondo me ci può essere un 2008, senza però ripetere il Sessantotto. E’ importante conoscerlo, in quarant’anni hanno cercato di distruggerlo in tutte le maniere, ma le conquiste epocali del ’68, dal modo di intendere la vita, ai rapporti interpersonali, al rapporto tra uomo e donna, restano.

E’ fondamentale guardare all’oggi: se noi avevamo il Vietnam, oggi di Vietnam ce ne sono tantissimi, gli spunti non mancano. Allora c’era la grande voglia, la grande curiosità di conoscere l’altro che bisogna far riemergere anche nel 2008. Dal punto di vista economico poi, le difficoltà dei giovani di oggi sono maggiori di quelli di quarant’anni fa; il diritto allo studio, oggi, è attaccato in maniera profonda. Bisogna avere il coraggio di parlare tra giovani, anche semplicemente del vivere quotidiano, senza dimenticare l’esperienza del passato, ma senza pensare che sia il modello per l’oggi. Oggi ci sono altre emergenze, basti pensare alla Terra che ha gli anni contati, o al Tibet, ad Abu Ghraib, a Guantanamo, all’Africa abbandonata a se stessa.

Bisogna chiamare a raccolta i giovani a discutere dei loro bisogni, del loro futuro. Certo, c’è il rischio che molti davanti a certe argomentazioni prendano e se ne vadano, ma sappiate che anche allora il rischio era questo. Bisogna guardare il presente e porci la domanda: ci va bene? Se la risposta è sì, “perfetto”. Ma siccome anche ai giovani meno vogliosi di discutere e aprirsi, non va bene, la breccia la si può trovare, basta solo decidere di farlo. Bisogna ritrovare il piacere di discutere.

Che cosa ti ha insegnato discutere?

Discutere mi ha dato un’energia incredibile e una grande capacità di gestire il lavoro e i rapporti tra le persone. Faccio l’imprenditore da sedici anni, mentre in precedenza per altri tredici anni ho ricoperto ruoli manageriali con grande coinvolgimento nelle aziende e responsabilizzandomi molto di fronte alle cose. E questo deriva dalla mia esperienza politica.

intervista a cura di Riccardo Canetta e Lorenzo Bagnoli


Forse potrebbe interessarti:

  • No Related Posts

Facebook comments:

Un commento »

Lascia un commento!

Aggiungi il tuo commento qui sotto, oppure esegui un trackback dal tuo sito. Puoi anche iscriverti a questi commenti via RSS.

Sii gentile, rimani in argomento. Lo spam non sarà tollerato.

È possibile utilizzare questi tag:
<a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

Questo sito web supporta i Gravatar. Per ottenere il proprio globally-recognized-avatar, registra un account presso Gravatar.