La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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L’importanza di non essere Eichmann

Scritto da – 8 Ottobre 2015 – 18:03Nessun commento

landmesser-partIl risveglio in una certa parte della popolazione europea di un sentimento di solidarietà nei confronti dei fratelli ellenici martoriati dai debiti, ha fatto si che mai come ultimamente ci siamo sentiti ricordare che la Grecia è stata la culla della nostra civiltà. Ebbene, uno dei concetti fondamentali del pensiero greco è quello della ciclicità intrinseca alla natura e al tempo: ogni evento è destinato a ripetersi nelle sue linee essenziali in quanto immutabile è l’essenza del mondo e, pertanto, della natura umana. Tuttavia sembra che abbiamo dimenticato questi insegnamenti, sarà a causa di Sant’Agostino, dell’illuminismo, o del fatto che a un certo punto la società occidentale ha smesso di guardarsi indietro, fin troppo fiduciosa nel proprio progresso da pensare che questo potesse avvenire senza sforzi. E fu così che ci ritrovammo «in una selva oscura» dove le fiere più temute non sono la magra lupa, o il leone, ma la crisi economica, i dissidi all’interno dell’UE, le migrazioni, gli attacchi terroristici e tutto ciò che, ce lo ricordano di continuo, dovrebbe tenerci svegli la notte e addormentati di giorno. Di narrazioni di questi fenomeni ce ne sono moltissime e sono talmente varie da portare a pensare che non esista una verità. E così ci troviamo a navigare in un mare d’informazioni che, quasi seguendo quelle stesse leggi del mercato che sembrano ormai governare il mondo, perdono di valore proprio poiché ve ne sono in eccesso. Esistono però degli strumenti attraverso i quali il singolo può difendersi da questo esasperato relativismo, e uno di questi è proprio la cara vecchia esperienza. La storia corre e ricorre, pertanto non possiamo permetterci di dimenticarne i passaggi più terribili, perché solo così potremmo evitare che si ripetano.

A leggerla scritta, sembra una di quelle convenzionalità che si sentono dire in occasione delle giornate della memoria, eppure mai come in questi ultimi anni sembra che questa lezione sia stata dimenticata. E così capita che una crisi economica, nata oltreoceano, faccia presto scordare i sogni di Robert Schuman di un’Europa unita e faccia risvegliare quei pericolosi nazionalismi che, più di una volta, hanno portato a disastrosi conflitti; capita che la smania di potere obnubili il cervello del politicante, e faccia dimenticare a cosa può portare fomentare l’odio per il diverso al fine di racimolare qualche voto in più; capita che grandi interessi di piccoli gruppi facciano mettere una pietra sopra ai reali motivi, i quali spinsero le vecchie generazioni, attraversate due guerre mondiali, a creare enti sovrannazionali che servissero a evitare che quegli orrori si ripetessero; capita che un premio Nobel per la pace sia dimenticato, quando si tratta di spendere risorse economiche per lanciare un salvagente a popolazioni che stanno letteralmente annegando nel mare; capita che il cittadino medio, frustrato da una situazione che sembra non voler proprio cambiare da sola, ma troppo pigro per cambiarla da sé, si dimentichi di uno degli insegnamenti più importanti che gli ultimi settant’anni di storia ci hanno lasciato: l’estrema, spaventosa e pericolosa banalità del male.

Se esiste, infatti, un’opera del novecento che non dovrebbe restare chiusa in un cassetto, è proprio «La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme». Il libro, per chi non lo conoscesse, è frutto del lavoro della filosofa ebrea tedesca Anna Harendt, inviata come reporter a Gerusalemme in occasione del processo ad Adolf Eichmann, il funzionario della Gestapo, considerato uno dei maggiori carnefici della shoah. La conclusione cui l’Harendt arriva, al termine dell’udienza in cui sono analizzate la carriera e le scelte dell’imputato, è che l’estrema pericolosità del male, la quale ha portato al genocidio della popolazione ebrea, era celata non nella malvagità, bensì nella mediocre normalità di una serie di uomini e donne come Eichmann, i quali, pur non essendo maligni, neppure avevano una morale abbastanza forte da contrastare le disumane follie naziste. Uomini mediocri che hanno agito per piccoli interessi particolari, senza avere le capacità, l’onestà intellettuale o la coscienza, di riflettere sulle conseguenze che le loro azioni avrebbero avuto. Il progetto di Hitler mai si sarebbe potuto portare a termine se non ci fosse stata, nella popolazione tutta, una sorta di passiva accettazione di quello che stava avvenendo, anche in chi non era né razzista, né antisemita.

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso “sfida” come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale.»

L’errore che non dobbiamo commettere di nuovo dunque, è quello di cercare il «male assoluto», di sentirci al sicuro fin quando non percepiamo il puzzo di un’atroce malvagità, perché così facendo rischiamo di assuefarci alla normale presenza di un male latente, non assoluto, ma altrettanto rischioso. Dobbiamo fuggire il rischio di abituarci alla violenza, che sia verbale, fisica o psicologica, perché nulla come l’abitudine porta a sottovalutare i pericoli. In tempi di recessione economica, ad esempio, la risurrezione di una frangia politica estrema nel panorama di molti Paesi dell’Unione Europea, la quale costruisce il proprio programma sulla base della ricerca di un capro espiatorio, pur non essendo paragonabile alle folli ideologie naziste, è comunque preoccupante. Convincere una popolazione impoverita che la colpa dei problemi della comunità sia di una particolare minoranza, etnica o religiosa ad esempio, è non solo irresponsabile, ma rappresenta anche un inquietante passo indietro nella storia del vecchio continente. Gli esponenti politici, i quali fanno della propaganda basata su populistiche affermazioni, e istigano all’odio un elettorato frustrato e spesso ignorante, non sono Hitler, ma Eichmann; coloro che, impigriti, si lasciano convincere che esistano soluzioni facili a problemi complessi, e per questo si trasformano da elettori senzienti a fanatici del carismatico leader di turno, non sono Hitler, ma Eichmann; coloro che ricoprono cariche pubbliche, dalla più semplice alla più onorevole, ma l’unica comunità che servono con zelo è costituita da se stessi e dalla loro ristretta cerchia, non sono Hitler, ma Eichmann; coloro che sono a contatto con l’illegalità, ma non se ne discostano per indolenza, non sono Hitler, ma Eichmann. E il guaio, di non essere Hitler ma Eichmann, «è che di uomini come lui ce n’erano tanti e questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali» e che «quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo». (Hannah Arendt, La Banalità del Male)

Antonella Serrecchia


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