Red Army, quando lo sport fa la storia
Un titolo da documentario storico: prima di leggerne la trama si pensa alla guerra, all’URSS, ai bolscevichi. Scorrendo la descrizione sulla locandina appesa fuori dal cinema, l’entusiasmo un po’ si smorza (per chi non segue l’hockey su ghiaccio, si intende): si parla sì della storia, ma di quella del periodo d’oro della nazionale sovietica su ghiaccio. Entrando in sala, già dalle prime immagini si capisce che invece è molto più che solo sport; che qui non si tratta semplicemente di gettare un occhio sfocato e nostalgico sulla storia. È invece un’indagine appassionata ed appassionante dove le persone, la politica e il cameratismo sono unite da questi due fili conduttori. Red Army è il documentario del regista e produttore Gabe Polsky (figlio di immigrati in America dall’URSS oltre che ex giocatore di hockey a Yale), noto anche per aver diretto il thriller The Motel Life (2012) con il fratello Alan. Presentato per la prima volta al Festival di Cannes 2014 ed al Milano Film Festival dello stesso anno, questo film prodotto da Werner Herzog porta sul grande schermo l’appassionante avventura di una delle sezioni sportive dell’esercito sovietico, ritrovatasi di colpo in cima al podio e gettata in mezzo alle tempeste politiche internazionali della guerra fredda. Orgoglio e patriottismo avvolti da un’ombra che è la gabbia del governo sovietico, che accarezzando con una mano le teste quei ragazzi, in realtà li tiene saldamente in pugno con l’altra. Una Russia capace di rinchiudere un gruppo di giovani atleti in strutture che ricordano un Gulag dorato post-destalinizzazione, costringendoli ad allenamenti massacranti pur di guadagnare l’oro olimpico e vincere una battaglia in più contro il blocco occidentale: la guerra sportiva. Una continuità con l’ideale dell’uomo-macchina, l’atleta deve essere come l’operaio Stachanov: il bene della patria come unico, vero punto di riferimento. Fino ai limiti più estremi: i giocatori sono sradicati dalle proprie famiglie, i figli crescono senza padri e i padri muoiono senza i figli.
Attraverso gli occhi dell’ex prodigio Vjačeslav “Slava” Fetisov, le immagini raccontano un’epoca di luci ed ombre, partendo dai primi passi nella squadra dell’allenatore visionario Anatoli Tarasov, considerato il padre dell’hockey sovietico, colui che ha reso il gioco della squadra unico al mondo prendendo ispirazione ovunque, anche dai ballerini del Bolshoi. Passando poi per la tirannide dell’inumano Viktor Tikhonov, fino alla lotta per giocare nei tornei internazionali senza diventare davanti agli occhi della Russia un disertore e un traditore della patria. L’arrivo negli Stati Uniti, il disgelo, l’impatto con un mondo completamente diverso da quello da dove proveniva. Fetisov da giovane prodigio sui pattini è poi entrato in politica; dal 2000 al 2008 Ministro dello Sport sotto Putin, nell’intervista non cede un attimo alla possibilità di aver pensato di tradire il proprio paese per fuggire verso l’occidente e verso il “sogno americano”. Forse una posizione un po’ artificiosa e costruita, uno stoicismo dettato anche dalla sua posizione attuale. Resta un uomo che si è imposto ai vertici del governo russo, per ottenere la libertà di giocare nei tornei internazionali, con stipendi da capogiro e una vita ben diversa da quella a cui era abituato.
Il regista ha saputo coniugare abilmente reperti d’epoca e frammenti d’attualità, legati insieme dalla nostalgia di un epoca d’oro, dalla vittoria sulle difficoltà, con un gusto agrodolce che pare strano assimilare agli stessi nomi che, annunciati dalla potente voce di un altoparlante prima di entrare in campo, incutono quasi timore. I nomi dei Russian Five, i componenti della mitica formazione che faceva sognare gli spettatori di tutto il mondo con le loro coreografie sul ghiaccio: Sergei Makarov, Vladimir Krutov, Igor Larionov ed Alexei Kasatonov e Slava Fetisov. Un gruppo che oggi si è disperso per le strade della vita, ma che ha condiviso per anni passioni, gioie, dolori e sofferenze. E molte ferite di guerra.
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