Siria, ecatombe dei diritti umani
Siria, una ecatombe per i diritti umani, l’ultimo vagone di un gioco di potere che sembra essere sempre più in panne davanti alle barbarie e alla potenza con cui la guerra tra le forze governative ed i ribelli sta continuando ad alimentare odio, paura, morti, feriti e rifugiati. Ad un anno dall’inizio della rivolta il numero dei morti si aggira intorno agli 8000, mentre i rifugiati nei vicini Libano e Turchia superano i 20.000. Indici matematici contenuti in report delle Nazioni Unite o redatti da alcune ONG internazionali che parlano di esseri umani, non di indici economici. Accostare dei numeri alla guerra siriana è, e continuerà ad esserlo fino al suo epilogo, un errore strutturale che rischia di allontanare l’attenzione dal perché nella “lontana” Siria ogni giorno vengono uccise decine di persone. La verità è che la questione ruota attorno a degli interessi geopolitici di larga scala che negli ultimi anni hanno mosso miliardi di dollari di armamenti e favorito alcuni tra i più importanti mercati esteri mondiali.
Il Regime di Bashar al-Assad
La dittatura ad opera della famiglia Assad che in questo 2012 compie 32 anni, 1970 l’anno di insediamento di Afez al-Assad, oggi raccoglie ciò che in questi anni ha seminato. Il regime dittatoriale costituito da una stretta cerchia di persone vicine al capo di Stato, ha totalmente alienato i cittadini siriani da un diritto di parola, decisione e sviluppo personale che cominciano a pesare sulle spalle delle persone smuovendone le coscienze. Altra grave colpa è quella di aver represso con la violenza e con il sangue ogni protesta nata in seno al Paese, il tutto favorito da un sistema malato fin dalla radice caratterizzato da intrecci politico-religiosi grazie ai quali la dittatura è riuscita a rimanere salda in tutti questi anni. La Siria poi si presenta come una nazione senza risorse del sottosuolo capaci di attirare quell’attenzione economica gravitante intorno all’oro nero e che le fa scontare un’arretratezza economica e tecnologica che pone Damasco, una delle città più belle ed antiche del mondo, alla stregua di un piccolo villaggio di provincia. Basse case costruite di mattoni, amplessi rurali che sembrano non voler cedere il passo, probabilmente a ben ragione, a grattacieli, alberghi a cinque stelle e a quell’influenza occidentale mirata ad un progresso esteriore che troppo spesso si dimentica di fare i conti con ciò che più lo differenzia: la religione e l’importanza che questa ancora oggi possiede in quest’area. Sui suoi 185,180km2 di superficie convivono ben 46 differenti confessioni religiose, una torre di Babele interna alla quale dobbiamo imputare la grave colpe di aver diviso la popolazione impedendole di concorrere per uno stesso fine.
Altro dato importante è la posizione geografica che permette alla Siria di acquisire potere internazionale nonostante la già citata pochezza di risorse. Lo sbocco sul Mediterraneo è il nodo dell’interesse geopolitico dall’America alla Cina che sta permettendo a Bashar al-Assad di commettere crimini contro l’umanità in barba alle leggi di diritto internazionale e che gli permetterà di uscire di scena “pulito”: una beffa alle Convenzioni sui diritti dell’uomo in cambio di un’agevolazione economica.
I Ribelli
Quante cose sono cambiate dalla prima manifestazione nella città di Dar’a. Quel primo blocco non contava più di qualche centinaia di giovani sfiniti dalle privazioni e decisi ad esercitare il loro diritto di manifestazione pacifica contro il governo. Come da tradizione siriana, a giugno la situazione era in fiamme e tra le file degli scontenti si potevano già contare alcune decine di vittime, conseguenza della risposta del regime. Ad un anno dall’inizio di quella che si è lentamente trasformata in una guerra dalle dimensioni internazionali, sono sempre di più coloro che si sono schierati contro il regime “imbracciando le armi” con l’intento di voltare pagina, riformare il sistema giuridico e lanciarsi in quel circolo vizioso dello sviluppo economico e sociale legato ai diritti umani.
Un ruolo importante ancora una volta lo giocano quegli interessi geopolitici che legano tra gli altri Russia, Libano e Iran alla roccaforte degli Assad ed i sultanati del petrolio ai ribelli. Da entrambi le parti non mancano i finanziamenti e gli armamenti che stanno permettendo il perdurare degli scontri. Secondo quanto riportato in un report firmato da Amnesty International, torture, omicidi di massa, stupri e tutto quello che la guerra si trascina al seguito, non sono più “un’esclusiva” delle forze del regime ma sono crimini di cui si stanno macchiando anche coloro che si propongono come alternativa.
Gli Organismi Internazionali
Successivamente al ritiro della Lega Araba dai territori siriani del 28 gennaio ed il successivo veto ad un intervento armato dell’ONU posto da Russia e Cina, a mescolare le carte in tavola ci ha pensato l’ex segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan. Dopo essersi recato a Damasco agli inizi di marzo senza ottenere nessun risultato, il 25 dello stesso mese, previa trattazione con i governi russo e cinese e la loro accettazione, ha sottoscritto un piano di pace con il regime di Assad. Articolato su sei punti, prevede il cessate le armi da entrambi le parti, la scarcerazione e la libera circolazione dei giornalisti e degli aiuti umanitari fino ad ora ostacolati, la partecipazione di tutte le parti ad una nuova trattativa di governo ma soprattutto, dettaglio determinante non previsto dal precedente tentativo marchiato ONU, non vengono contemplate le “dimissioni” di Assad.
Parallelamente Amnesty International, una tra le più importanti organizzazioni non governative in materia di diritti umani, in un recente rapporto ha chiesto un repentino intervento dell’ONU in modo da permettere l’invio di alcuni osservatori nelle città più colpite. “È fondamentale, per Amnesty International, che di un’eventuale missione facciano parte osservatori sui diritti umani, in grado di riferire e documentare i crimini che accadono sul campo” – ha dichiarato da New York José Luis Díaz, rappresentante di Amnesty International presso le Nazioni Unite. “Il governo siriano continua a impedire l’ingresso degli osservatori sui diritti umani delle organizzazioni internazionali e della Commissione d’inchiesta del Consiglio Onu dei diritti umani. Per questo, la missione Onu diventa ancora più importante”.
Il Futuro
Leggendo l’analisi di Rami Khoury, direttore dell’Issam Fares institute of public policy and international affairs all’American university di Beirut nonché columnist del quotidiano libanese Daily Star, emerge il paradosso della dittatura di Assad. “Usare la forza contro il suo stesso popolo gli ha permesso di mantenere il potere per tutti questi anni ma questa sarà anche il motivo della sua fine”. Secondo il giornalista americano-palestinese quindi, le risorse impiegate da Bashar sia in campo umano che in campo economico, lo starebbero isolando all’interno della sua stessa cerchia e sono l’ultima spiaggia di una sicura disfatta.
Se la caduta del regime sembra quindi vicina, altro discorso è da fare per cosa succederà dopo. Con le organizzazioni internazionali in stallo, le ONG impossibilitate a prendere decisioni di tipo politico, una crisi economica mondiale che sicuramente non aiuterà la popolazione a risollevarsi in breve tempo e lo spettro di ciò che successe in Afghanistan, per i cittadini siriani e per le 46 confessioni religiose i tempi bui sembrano essere solo all’inizio. Il rischio è una guerra civile per la leadership del paese nella quale a pagarne le conseguenze ancora una volta saranno donne e bambini.
Quella che a prima vista sembrò essere la logica conseguenza di un risveglio che nel 2011 ha interessato tutta l’area nord africana e medio orientale, oggi sta facendo emergere tutte le lacune e le pecche di quei sistemi internazionali creati nell’immediato secondo dopoguerra in un ottica troppo occidentale al punto da non essere in grado di capire davvero quali sentimenti stiano alla base delle guerre musulmane.
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